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Emma Marinoni

Realtà al cinema: biopic e altre storie

In un'epoca di narrrazioni capillari, in cui il verbo storytelling si può applicare indifferentemente a una favola e ad un brand, il confine tra realtà e finzione diventa ancora più labile.





















Introduzione

"Tratto da una storia vera"


Il cinema inizialmente nasce, sulla coda della fotografia, per documentare e descrivere direttamente la realtà. L’elemento di finzione non c’è ancora e il pubblico si comporta di conseguenza, ovvero trattando tutto ciò che c’è sullo schermo come reale, e quindi, in certi casi, persino correndo a gambe levate fuori dalla sala. Ma cos’è successo quando il pubblico ha capito che il treno dei fratelli Lumière sarebbe stato solo ed esclusivamente all’interno dello schermo? Al contrario della fotografia, la nostra ossessione per le narrazioni ha preso subito il sopravvento nel mondo cinematografico.


Dopo la crisi post-pandemia, uno dei pochi prodotti considerabili come relativamente “originali” e ancora indipendente da saghe o adattamenti precedenti che è riuscito a rimanere in sala è stato il biopic. Solidificatosi come genere già negli anni precedenti, il film basato su una storia vera rimane un “prodotto vincente”, sia al botteghino che per la critica. 


Il confine tra realtà e finzione è sempre stato labile nel mondo del cinema, soprattutto dal punto di vista del pubblico. Un esempio è il divismo all’epoca d’oro di Hollywood: il fatto che un attore interpretasse sempre lo stesso tipo di ruoli tendeva di fatto a creare una totale coincidenza tra personaggio fittizio e persona - causando anche per alcuni interpreti l’impossibilità di lasciarsi alle spalle un personaggio (vedi Anthony Perkins dopo Psycho). Ma il cinema flirta con la realtà anche all’interno dei suoi contenuti: basti pensare al genere del found footage, in cui tutti gli avvenimenti sullo schermo (tendenzialmente orrorifici) vengono presentati allo spettatore come realmente accaduti - anzi, è proprio il loro essere stati ripresi a testimoniarlo.


In questo momento, in cui le narrazioni sono capillari sotto tutti gli aspetti, in cui il verbo storytelling si può applicare indifferentemente ad una favola e ad un brand, il confine tra realtà e finzione diventa ancora più labile. Quindi sorge il problema di come finzionalizzare al meglio la realtà: ciò porta scrittori, registi etc a interrogarsi sulle modalità e sull’etica della rappresentazione - l’ha fatto persino il nostro caro Martin con Killers of the Flower Moon, dopotutto. L’esempio più lampante è il fresco di vittoria agli Oscar The Zone of Interest, forse addirittura più una riflessione sulla rappresentazione che un film in sé. 


In questo numero ci facciamo molte domande e proviamo a darci alcune risposte. Dal perché ci ossessionano le storie true crime o le rappresentazioni più grafiche della violenza, a che cosa dice di noi il nostro rapporto con la celebrità. Passiamo da chi sceglie di rappresentare il reale così com’è a chi invece decide di “metterci una pezza”. Parliamo di quando i film riescono a dire di più sulla realtà attraverso la finzione che attraverso la rappresentazione esatta del reale. E anche di chi riesce a razionalizzare meglio la propria vita tramite la finzione, e di chi invece proprio a causa di essa se la rovina.


Di Emma Marinoni

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