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Portare la realtà al cinema

Questo confronto con il reale assomiglia per molti versi a un gesto scultoreo: si tratta infatti di un lavoro di rimozione dell’inessenziale da ciò che tutti i giorni si trova sotto i nostri occhi, estraendo la scultura dal blocco di marmo della vita. E d’altra parte proprio come per la scultura potremmo dire del cinema - parafrasando Michelangelo - che l’opera cinematografica è già nella realtà, e il cinema ha il solo compito di scolpire via l’inessenziale per portare alla luce la verità cui aspira.  



Il cinema è l’arte che forse più di tutte, ancor più della fotografia, è costretta a confrontarsi costantemente con la realtà, essendo questa la materia prima del cinema.

Non tutte le arti sono soggette a questo vincolo. La musica, ad esempio, non lo è, essa giunge direttamente, senza bisogno di rappresentazioni, a ciò cui tutte le altre arti aspirano: una comprensione ideale e astratta delle passioni umane che riesca a scollarsi dalla concretezza della vita e possa valere per tutti. Una idealizzazione della materia profonda delle nostre vite. In fondo se l’arte nasconde delle verità è qui che queste vanno cercate. Un esempio lampante di questa dinamica lo troviamo nel buon vecchio Ludovico Van (Ludovico Van perché comunque questa è una rivista di cinema): chiunque, fosse anche un totale analfabeta musicale, ascoltando il secondo movimento della settima non può non sentire già dalla prima nota la drammaticità, le tensioni, le attese, ed entrare in un mondo ideale di passioni dove, magicamente, tutti sappiamo ritrovarci. Questa forma di astrazione ci muove da dentro, innalzandoci senza usare nemmeno una parola, un concetto, una rappresentazione: ed è proprio qui che la musica trova la sua potenza.


In qualche modo l’arte, tutte le arti, aspirano proprio a questo - a essere musica, e anche il cinema. Il cinema però è costretto a passare attraverso un serrato confronto con il reale, a sporcarsi le mani nella pasta della realtà, a fare uso di rappresentazioni, a prendere, ri-prendere la nostra vita e partire da lì, per poi estrarne tratti essenziali. 

Questo confronto con il reale assomiglia per molti versi a un gesto scultoreo: si tratta infatti di un lavoro di rimozione dell’inessenziale da ciò che tutti i giorni si trova sotto i nostri occhi, estraendo la scultura dal blocco di marmo della vita. E d’altra parte proprio come per la scultura potremmo dire del cinema - parafrasando Michelangelo - che l’opera cinematografica è già nella realtà, e il cinema ha il solo compito di scolpire via l’inessenziale per portare alla luce la verità cui aspira.  

È questo il primo tipo di legame che il cinema intrattiene con la realtà: il reale come materia prima del cinema; ed è in virtù di questo legame che ciò che vediamo sullo schermo, anche e specialmente l’opera di finzione, ci risulta comprensibile e sensata. Lo è proprio perché ciò che vediamo è reale, non nel senso che è realmente successo, ma nel senso che le cose degli uomini succedono proprio così, come l’arte – nelle sue forme compiute – ce le presenta. 


In quest’ottica la distinzione tra fiction e non-fiction al cinema potrebbe sembrare poco rilevante. La verità cui aspira il cinema non sembra avere a che fare con la verità dei fatti, ma piuttosto con la verità artistica; non ha a che vedere fatti realmente accaduti, ma con una “verità” sull’umanità in generale. Il fatto che ciò che compare sullo schermo sia realmente accaduto o meno, al cinema, non pare avere molta importanza.

Quello che vediamo sullo schermo, per quanto possa essere riferito alla realtà, non trae la sua compiutezza dall’essere una riproduzione corretta, adeguata, di certi fatti reali. dal punto di vista formale l’opera cinematografica è sempre essenzialmente una finzione, è sempre separata dalla realtà, anche quando si sovrappone in parte con fatti realmente accaduti, anche – in linea di principio – qualora si sovrapponesse completamente con dei fatti realmente accaduti. Guardiamo lo schermo e fingiamo di vivere, di esperire ciò che è proiettato; fingiamo che ciò che ci passa davanti agli occhi sia vero. Eppure la realtà non è quella: ciò che vediamo è piuttosto il frutto di un lungo processo di produzione, di interpretazione, di scultura, che è partito dal reale per giungere altrove. 


Queste considerazioni ci pongono in una particolare situazione. Da un lato, stiamo sostenendo che lo scopo del cinema non ha nulla a che vedere con il documentare fatti, attività che ne è essenzialmente distinta. Tuttavia, non possiamo non vedere che questo il cinema può farlo, e spesso lo fa. Le storie vere, il portare la realtà al cinema, hanno giocato e giocano ancora oggi un ruolo fondamentale nella settima arte, anzi esiste un intero genere, il documentario, che sembra fare del cinema proprio questo, riprodurre il reale, contraddicendo completamente quanto vorremmo sostenere. 

Dobbiamo perciò chiederci quale possa essere il senso di portare la realtà al cinema. Dobbiamo cercare di capire che significato ha la scelta di raccontare una storia realmente accaduta invece che una storia di finzione. Da dove nasce questa esigenza? Che senso ha? E in che misura è parte del cinema in generale? 



Per provare a rispondere, concentriamoci un momento sul genere del documentario. È qui che l’esigenza di portare la realtà al cinema trova la sua massima realizzazione. Si tratta pur sempre di arte, e di arte cinematografica: le considerazioni iniziali sugli scopi del cinema certamente valgono anche qui, e tuttavia solo qui troviamo la dichiarata pretesa di raccontare qualcosa di vero. La ricerca di una verità generale, tipica dell’opera d’arte, si unisce all’idea di una verità particolare, tipica della cronaca.  Possiamo cioè pensare al documentario come a un prodotto che si colloca all’intersezione tra questi due concetti: esso fa propria l’essenza del cinema, di cui si è detto sopra, ma lo fa attraverso una tecnica particolare, vincolata in primo luogo alla pretesa di esibire fatti reali.  Una tale definizione del documentario ci consente di fare alcune prime distinzioni. In primo luogo, rispetto al giornalismo, un prodotto analogo sul piano pratico della realizzazione, ma privo di intento artistico. In secondo luogo rispetto al cinema di finzione, analogo sul piano dell’intento artistico ma differente quanto a strumenti narrativi.  


La prima distinzione è la più semplice: documentari e giornalismo mirano entrambi a esibire fatti reali, ma con intenti molto diversi. Da un lato abbiamo una cronaca, dall’altro una narrazione, e se la cronaca è pensabile come un mero elenco di cose effettivamente successe, la narrazione, anche quando è narrazione di fatti reali, include un processo selettivo e di organizzazione logica dei contenuti mirato a trovare un senso interno, una “morale” (ci si conceda un uso grossolano di questo termine). Chiaramente l’idea di trovare tale senso interno è strettamente legata a un processo di astrazione che dal particolare va verso l’universale, che dal concreto dell’evento accaduto mira a mostrare una struttura generale (e ciò vale anche nei casi limite, ad esempio quando il senso è che non ci sono strutture generali, affermazione che di per sé si configura come struttura generale). È proprio su questo punto, sul senso interno della narrazione, che si gioca la differenza tra narrazione e cronaca, tra documentario e giornalismo, tra cinema e non-cinema. È proprio il senso delle narrazioni l’elemento che si innalza verso la verità artistica.

 

Per quanto riguarda invece la distinzione tra cinema di finzione e documentario è legittimo essere un poco più dubbiosi. Si è accennato al fatto che ciò che differenzia il documentario dal cinema di finzione sia l’uso di una serie di “strumenti narrativi specifici”: questo è in parte vero. Tuttavia si potrebbe percorrere un’altra via e dire che l’elemento caratterizzante del genere documentario sia quella “esigenza di portare la realtà al cinema”, il vincolarsi a raccontare solo realtà realmente accadute – vincolo che porta con sé il criterio della veridicità (e della falsità). 

Siamo di fronte a due poli concettuali, uno più tecnico e uno più teorico, e vogliamo dare corpo alla distinzione tra il documentario e il resto del cinema. Subito ci accorgiamo che di per sé nessuno dei due concetti può valere come criterio generale. Quanto al polo “tecnico” non vi è infatti una tecnica specifica che ci consente di dire cosa è documentario e cosa no. La più papabile da questo punto di vista, potrebbe essere l’evitare scene recitate, e tuttavia l’uso di questa tecnica non garantisce che si tratti di un documentario, ne d’altra parte è del tutto impossibile pensare che vi siano scene recitate in un documentario. 


D’altra parte se proviamo a vincolarci al criterio della veridicità otteniamo un risultato altrettanto ambiguo. Ciò che conta dovrebbe essere in questo caso la semplice verità dei fatti narrati. Ma il mostrare fedelmente fatti reali, il fatto che le singole rappresentazioni che compongono una pellicola siano vere, non è di per sé sufficiente al nostro scopo. Sappiamo bene che, specialmente quando si tratta di prodotti narrativi, la corrispondenza effettiva tra  la realtà e ciò che viene raccontato può essere del tutto soddisfatta anche a fronte di narrazioni incredibilmente tendenziose, se non volutamente fantasiose. 

Potremmo allora essere tentati di fare riferimento non tanto alla verità delle singole rappresentazioni, non alla corrispondenza di ogni fotogramma con qualcosa di realmente accaduto, ma piuttosto alla verità della narrazione, sostenendo che deve essere la narrazione nel suo complesso, nel suo senso, ad essere vera

Tuttavia questa mossa ci porta su un piano dove la distinzione tra finzione e non finzione diventa estremamente sfumata: in entrambi i casi il senso della storia vuole in effetti essere vero. Certo, alcune storie sono storicamente connotate, altre meno, altre ancora per niente, ma questo non basta a chiarire il limite tra documentario e finzione. Vi è un esempio (extracinematografico) che rende lampante questo punto: pensiamo ai capitoli sulla peste a Milano nei Promessi Sposi. Come dovremmo intederli? Finzione o non finzione? Forse entrambe le risposte sono valide, forse avrebbe senso dire che la storia è stata usata nella finzione, ma forse anche il contrario, che la finzione è stata usata per fare una storia.


Insomma, ciò che si tentava di definire era una distinzione forte tra fiction e non fiction, e ora questa distinzione sembra svanirci sotto i piedi. Pare che, una volta entrati nella sala buia del cinema ciò che è reale inizi a confondersi ciò che non lo è, i confini sfumino e forse smetta anche un po’ di importarci. 

Ma allora come possiamo comprendere questo speciale rapporto con la realtà che alcune opere cinematografiche presentano? Come possiamo individuarlo, per chiarirlo nella sua struttura? 

Forse per venire a capo di questo quesito dovremmo fare un passo indietro – e farlo davvero, uscendo dalla sala buia. Lì dentro in effetti un criterio non c’è: la rappresentazione cinematografica non dice di sé stessa nulla sul suo legame con la realtà. Entriamo in un cinema e vediamo qualcosa, non sappiamo cosa sia, mettiamo anche che sia nello stile documentaristico: basta lo stile a garantire che quei fatti siano realmente accaduti? Come facciamo a sapere che non si tratta, ad esempio, di un mockumentary



Finché rimaniamo all’interno del cinema c’è un solo senso in cui possiamo parlare di verità, ovvero parlando di quella verità che chiamerei artistica. La verità che è propria del cinema in generale, e di tutta l’arte, la stessa verità cui, si diceva, giunge la musica. “Quello che ho visto è proprio vero” al cinema significa che ciò che abbiamo visto tocca davvero delle corde profonde dell’umanità, che è stato raggiunto l’obiettivo di mostrare una piccola parte dell’essenza delle nostre vite umane. 

Solo uscendo dalla sala - o, fuor di metafora, da un punto di vista esterno alla narrazione - possiamo sapere che la narrazione in questione è riferita a un evento reale. Questo però è un criterio del tutto esterno, e soprattutto il riferimento di per sé non dice nulla sui criteri e sui modi in cui i contenuti narrativi sono stati messi in relazione ai fatti reali cui si riferiscono. In linea di principio, di qualsiasi storia potremmo dire che è riferita a un qualsiasi fatto reale. Certo, il fatto che una narrazione sia riferita a certi fatti reali ci consente, in linea teorica, di pensare che un qualche criterio di verità sia applicabile, e tuttavia non ci dice quale livello della narrazione sia soggetto a tale criterio. Dovremmo applicarlo alla verità delle singole rappresentazioni? Delle singole sequenze? Alla trama? Al senso generale della narrazione? Nulla all’interno della narrazione può rispondere a queste nostre domande. Non sapendo come applicare un criterio di verità peraltro non possiamo nemmeno dire in linea di principio se ciò che viene narrato in riferimento a certi fatti reali ne parla bene o male, veridicamente o falsamente. 


Con ciò possiamo dire di aver consolidato la posizione da cui partivamo: nella fruizione di un’opera cinematografica, il riferimento alla realtà esterna è in prima battuta irrilevante, o meglio, inaccessibile. 

Eppure queste considerazioni non sono irrilevanti rispetto alla domanda che si siamo posti inizialmente: se il riferimento alla realtà è inessenziale rispetto all’opera cinematografica, perché fare documentari, biopic e storie esplicitamente ispirate a fatti reali? 

Vi sono ottime ragioni per farlo, anche se spesso, e tristemente, la risposta non è entusiasmante. L’inventore della bomba atomica, Napoleone,  questo o quel caso di cronaca, il giocattolo di enorme fama - e chi più ne ha più ne metta – non sono che protagonisti carismatici di banali tentativi di attirare al cinema un certo tipo di pubblico. Ma su questo non vorrei soffermarmi troppo. 

Il fatto che la trama di un film venga legata a un fatto reale è di per sé intrigante, a prescindere dalla veridicità della narrazione: si tratta di pensare una narrazione non solo come un punto nello spazio della finzione ma piuttosto come a un elemento di quella stessa linea temporale di cui anche noi facciamo parte. Ciò fa scaturire una serie di emozioni e di sentimenti che altrimenti ci sarebbero preclusi, a prescindere dal fatto che sappiamo o meno quanto della narrazione faccia davvero parte della Storia - e questo è un primo punto. 


Una seconda risposta alla nostra domanda è più legata a un’idea che troviamo nella cultura occidentale già dall’alba del pensiero greco, e venne ottimamente sviluppata dagli storici antichi. Idea opera come presupposizione nella scelta di narrare una storia vera: in fondo la natura umana è tale da farci vivere e rivivere sempre le stesse situazioni, le stesse dinamiche, le stesse storie. Vi sono costanti nel modo umano di vivere che segnano le nostre vite dall’alba dei tempi. Così, raccontare una storia e dire di essa che è realmente accaduta è un modo per riconfermare questo presupposto, e dare potenza alla pretesa tipica dell’arte in generale: di poter cogliere gli snodi essenziali della vita. L’amore è sempre l’amore, la guerra è sempre la guerra, ed è forse per questo che l’Iliade è ancora un testo che ha molto da dare. Non tanto perché ci racconti come siano andate le cose sotto le mura di Troia, ma perché sa mostrarci che nel tempo che separa il nostro oggi dallo ieri di Agamennone le cose non sono poi cambiate più di tanto: si ama e si combatte allo stesso modo e per le stesse futili ragioni. 

Da queste due considerazioni potremmo trarre un'ulteriore conclusione: la scelta di fissare un riferimento reale per la storia che si sta narrando, di farla cioè uscire dallo spazio della finzione, è, in fondo, una mossa di stile. È una scelta di fatto extranarrativa, le cui conseguenze si ripercuotono però sul senso della narrazione tanto quanto tutte le altre scelte intranarrative. Portare la realtà al cinema è un modo come un altro per dare un senso specifico alla propria storia, darle una potenza differente, restando in linea con le aspirazioni essenziali del cinema e dell’arte in generale. Perché in fin dei conti l’arte, tutte le arti, aspirano a questo: a essere musica, e anche il cinema – anche quando parla della realtà. 


Di Zeno Privileggio


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