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Jacopo Bongini

Sono ancora qui: la negazione dell’incredulità

Girato con lo stile del falso documentario, il film si presenta ai nostri occhi come un’analisi sia dei processi di sospensione dell’incredulità che di uno degli atteggiamenti più tipici e al contempo più fastidiosi della classe attoriale, sia cis che transoceanica: la costante ricerca dell’autentico e del reale, vera e propria malattia professionale a ben vedere inevitabile tra chi è costretto per lavoro a fingere di essere qualcun altro.



“My friend and his neighbor thought this was a real documentary LMAO”

@davidallen346


La vicenda del ritiro annunciato, e poi smentito dopo pochi giorni, della popstar Lizzo lo scorso marzo ce l’ha ricordato ancora una volta: la notorietà, e quindi di conseguenza le disponibilità economiche, sociali e culturali che da questa discendono, non è direttamente proporzionale alla libertà. Anzi, a ben guardare sono proprio le cosiddette celebrities i soggetti maggiormente vincolati al rispetto di un patto sociale dove il divo, costretto a non gettare mai la maschera pirandelliana che major musicali e cinematografiche gli hanno cucito addosso,  diventa implicita proprietà dei suoi fan. Di fatto un’usucapione programmata.


Può un contesto del genere, e tutte le sue implicazioni, non divenire blocco di marmo da scolpire per i meccanismi autofagi del cinema stesso? Ovvio che no e negli ultimi decenni infatti non si contano più i registi, sceneggiatori e attori che hanno provato a raccontare la gabbia dorata dello show biz nelle sue mille ripercussioni sugli addetti ai lavori: dal precursore Viale del tramonto (Sunset Boulevard) fino al recentissimo Babylon, dalle commedie Bowfinger e Tropic Thunder  fino a Bojack Horseman, per spostarci nel campo delle serie tv .

All’interno di questo particolare club vi è però una pellicola che circa quindici anni fa ha acceso i riflettori in controluce scommettendo su quale animale sarebbe apparso nelle ombre cinesi antistanti. Un esperimento situazionista fatto in casa, lontano dalle grandi produzioni (e dunque dai grandi compromessi) che risponde al nome di I’m still here! opera prima di Casey Affleck con protagonista il cognato Joaquin Phoenix, che per quasi due anni ha messo in scena all’insaputa di – quasi - tutti il suo ritiro dal mondo della recitazione per dare inizio alla sua nuova carriera di artista hip hop.


Girato con lo stile del falso documentario, il film si presenta ai nostri occhi come un’analisi sia dei processi di sospensione dell’incredulità che di uno degli atteggiamenti più tipici e al contempo più fastidiosi della classe attoriale, sia cis che transoceanica: la costante ricerca dell’autentico e del reale, vera e propria malattia professionale a ben vedere inevitabile tra chi è costretto per lavoro a fingere di essere qualcun altro, fino al rifugio ultimo nell’esperienza trascendentale o nell’attivismo moralistico fine a se stesso. Impossibile in questo senso non vedere dei rimandi allo spiritualismo un tanto al chilo made in Hollywood di cui già trent’anni fa fu capostipite la conversione al buddhismo di Richard Gere o ancor di più al primo ritiro dalle scene di Daniel Day Lewis, che dal 1997 al 2001 si liberò dei panni griffati Versace e da novello San Francesco fuggì in Toscana per imparare e fare il calzolaio.


È in questi interstizi dell’anima che Phoenix sceglie di infrattarsi. A pensarci bene chi meglio di lui, figlio di due ex hippy delusi sia dalla Summer of Love che dallo pseudo-cristianesimo della setta dei Bambini di Dio, per incarnare il costante bisogno di fuga dall’esistente e - nomen omen  - di rinascita. Quel Phoenix che all’epoca della realizzazione del film aveva già all’attivo ben due temporanei ritiri dalle scene, il primo nel 1989 e il secondo nel 1993 subito dopo la morte del fratello River, e che pertanto avrebbe potuto contare su una buona dose di credibilità artistica da spendersi in un’operazione di questo tipo.


E invece fin dai primi minuti del film ciò di cui l’attore sembra lamentarsi di più è proprio il fatto che il pubblico e soprattutto i colleghi non riescano a prenderlo sul serio; come se la transizione dal grande schermo al mondo della musica, per di più entrando, da bianco, in un genere così strettamente connesso al retroterra della minoranza afroamericana, fosse troppo anche per l’inverosimile luna park hollywoodiano. Malgrado la prova attoriale di Phoenix, sempre attento a mantenersi sopra le righe ma non al punto da diventare caricaturale, ciò che incombe tra le vittime del mockumentary per tutta la durata della pellicola è il dubbio che per l’appunto sia tutto una farsa, che nulla sia vero ma al massimo verosimile, e forse proprio per questo più reale del reale stesso.


Sospettoso è l’atteggiamento dei giornalisti, così come quello degli amici e financo quello di Sean “Puff Daddy” Combs, che al momento di ascoltare i suoi pezzi in sala di registrazione gli chiede espressamente «perché vuoi fare questa cosa?»: una singola frase che detona tutte le insicurezze psicologiche del protagonista, ora rappresentante antitetico del mondo che è deciso a scoperchiare. L’attacco frontale allo sfavillio dei red carpet dove nulla è visibile se non è prima concordato con i rotocalchi, viene portato avanti da un uomo irascibile, imbolsito, soggiogato dai propri capricci, con occhiali da sole, barba lunga e presumibile scarsa cura della propria igiene personale.


«Phoenix è finito perché anche dietro a quella barba da senza tetto è riuscito a dissipare quell’alone di mistero che lo circondava» commentano gli opinionisti. L’essersi presentato al pubblico con le sue – sempre presunte - reali intenzioni, senza quindi la giustificazione di un momentaneo sbandamento figlio di droghe o alcol, diventa una colpa imperdonabile per quelli che fino a poche settimane prima erano stati i tuoi amici, colleghi e datori di lavoro. Coloro che più di tutti avrebbero dovuto difenderti.



“Mi dispiace che tu non sia potuto essere qui stasera, Joaquin”

David Letterman – 11 febbraio 2009


Lo scetticismo lascia il posto alla presa di coscienza. Phoenix, ormai ridotto a principe dei reietti dopo la sua esibizione assente e bofonchiante al Late Show di David Letterman, viene trattato da tutti alla stregua di un corpo estraneo che attraverso il più canonico dei riti di autoconservazione va immediatamente espulso dal sano organismo dello show business. In tale contesto, l’espiazione del peccato non può che passare dalla totale messa alla berlina dell’attore attraverso il medium televisivo, in una procedura di risignificazione dell’individuo che conferma quanto anticipato decenni prima da Guy Debord nel suo La Société du Spectacle: lo spettacolo che non si limita ad essere solo un semplice insieme di immagini, ma che rappresenta l’essenza del rapporto sociale tra gli individui, mediato da quelle stesse immagini.


Non si contano le parodie, le imitazioni, i meme ante litteram che in pochi mesi bersagliano il povero Phoenix in un crescendo grottesco forse esagerato per il 2009 ma perfettamente sensato per la società contemporanea. La vendetta compiuta dal suo assistente, che deluso dai continui maltrattamenti arriva a defecargli addosso mentre sta dormendo, preconizza in questo senso i risvolti più ridicoli della disputa giudiziaria tra Johnny Depp e Amber Heard di oltre un decennio dopo.


Ironia della sorte, in questo nuovo ordine delle cose l’attore si ritrova ad anticipare nel mondo reale quei personaggi borderline che andrà poi a impersonare negli anni seguenti nella comfort zone del set. Uomini fuori dal quando e dal dove come il veterano sociopatico Freddie Quell di The Master, l’investigatore privato Larry “Doc” Sportello di Inherent Vice e ultimo ma sicuramente non meno importante il Joker dell’omonima pellicola di Todd Phillips. Vittime della società alle quali l’aspirante rapper di San Juan non ha nulla da invidiare. 



I'm still hereI don’t scareI don't fear not even fear fucking fearI never got never __

I don't give neverI live forever I am the one who _____ I’m still real

I won't kneelBless this God my team know how I feelI never sold never my good soul neverI live forever i'm that one that God's chosen

Joaquin Phoenix - I’m still here


In I’m still here! si parla di Ipod e del primo YouTube come ultima frontiera dell’intrattenimento ante social, forse già immaginando il velo di maya che di lì a poco si sarebbe squarciato gettandoci nella corrida dove l’interattività pseudo reale del rapporto tra influencer e influenzato ha soppiantato (e sbilanciato a favore dei secondi) la passività unidirezionale del vecchio legame tra celebrità e fan.


Oggi quel rapporto vede infatti l’uomo della strada con molto più potere contrattuale nei confronti della stella di turno: una parola decontestualizzata, un gesto male interpretato, un’azione di decenni prima analizzata con i metri di giudizio odierni possono distruggere, o comunque compromettere, un’intera carriera più di quanto non sia stato possibile solo vent’anni fa. Chi entra a far parte dello star system accetta di fatto di poter perdere in ogni momento il proprio punto di vista sul mondo e di essere potenzialmente cannibalizzato da quello degli spettatori. A meno di un improvviso ritorno sui binari dell’interpassività, il futuro sembra essere sempre più simile all’esito infausto della partita di Space Jam, in cui uno schiavizzato Michael Jordan sarebbe stato costretto a perdere a basket contro i fan e a firmare autografi per il resto della sua vita.


Unica via di fuga per Phoenix e per tutti quelli che scelgono di essere reali nel mondo reale sembrerebbe essere quella suggerita alla fine del film con il più banale dei cliché della celebrità in crisi d’identità: il ritorno alle origini ripercorrendo i luoghi dell’infanzia, la riscoperta di se stessi qui affrontata in modo tanto didascalico quanto ironico; basti pensare che a interpretare il genitore dell’attore è Tim Affleck, vero padre dei fratelli Ben e Casey Affleck. Un ultimo sfottò, per quanto negato dal regista, verso quello stesso palcoscenico che per due anni ha cercato di capire se la follia di Phoenix fosse vera o soltanto recitata.


«Non volevamo prendere in giro nessuno, volevamo creare uno spazio, farvi credere che quello che accadeva fosse reale. Volevamo che il pubblico potesse vedere il crollo di una star del cinema senza preconcetti».

Forse l’importanza di una performance come I’m still here! sta proprio nell’enorme aspettativa che essa ha creato nel momento in cui veniva messa in scena come ipotesi reale, poi dissoltasi come bolla di sapone una volta scoperto che invece era soltanto un attore che stava recitando. Delusi di non essere più delle galline dopo che l’ipnotista ha battuto le mani.


Di Jacopo Bongini


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