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Sara Ricciardi

Il fascino della violenza cinematografica: esplorando l'attrazione del male tra sublime e catarsi

Sebbene possa apparire disturbante, l'interesse morboso per la violenza estrema è un fenomeno piuttosto diffuso. A partire dalle risposte che la psicologia ha fornito, l'articolo si propone di esplorare le ulteriori motivazioni che alimentano una simile curiosità. In particolare, il testo riflette sul legame che intercorre tra il sublime e il gore, indagando poi la sensazione di catarsi che emerge dal contatto col macabro.




Negli ultimi anni, si è assistito ad un aumento sia del numero di dark tourists che della vendita di murderabilia. Parallelamente, è cresciuto l'interesse verso le rubriche di true crime e, almeno in Europa, i telegiornali dedicano sempre più spazio alla cronaca nera. Questa peculiare tendenza verso il gusto del macabro riflette la forte attrazione che gli aspetti più truci e sanguinosi dell’esistenza esercitano sull’essere umano. Di fronte ad una simile fascinazione, sorge spontaneo domandarsi quali possano essere i fattori che spingono l’individuo ad indagare gli elementi violenti che ruotano attorno all’esperienza di morte. 

 

Una prima risposta è stata fornita da Zuckerman e Litle, tra i primi ad occuparsi dell’argomento alla fine degli anni 80. Secondo la loro indagine, la motivazione primaria alla base della curiosità morbosa risiederebbe nella ricerca di emozioni forti. Uno studio condotto nel 2014 all’University of Central Florida intitolato “Captive and Grossed Out: An Examination of Processing Core and Sociomoral Disgusts in Entertainment Media” ha effettivamente dimostrato che l’esposizione a contenuti definiti core disgust, raffiguranti sangue e torture, suscita nel soggetto un’accelerazione del battito cardiaco e un acuizione dell’attenzione. La reazione fisica osservata sarebbe stata per altro più intensa di quella provocata dall’esposizione dei partecipanti a contenuti etichettati come socio moral disgust, che mostravano invece atti di sessismo, omofobia e razzismo. 

 

Che questo tipo di contenuti causi una effettiva reazione di eccitamento dei sensi è indubbio. Tuttavia, se per Zuckerman e Litle il sensation seeking costituiva la motivazione principale per cui alcune persone traggono piacere della fruizione di materiale ad alto contenuto violento, per lo scienziato del comportamento ed esperto di morbid curiosity Coltan Scrivner ciò non è da considerarsi la principale forza motrice. Nel suo articolo “The Psychology of Morbid Curiosity: Development and Initial Validation of the Morbid Curiosity Scale” Scrivner si interroga proprio sulle potenziali ragioni che stanno alla base della curiosità morbosa, la quale viene considerata dallo studioso come un elemento più complesso e articolato. Una delle motivazioni su cui Scrivner si sofferma ha a che fare in particolare con la funzione del disgusto. La naturale inclinazione umana alla curiosità - nonostante la scienza non abbia ancora fatto completa chiarezza sul suo funzionamento - gioca un ruolo fondamentale quando si parla di morbid curiosity. L’essere umano infatti, mosso dal desiderio di conoscenza, è portato ad esplorare ciò che lo circonda. Quando durante questa fase empirica subentra la sensazione di repulsione, il cervello ha la possibilità di catalogare una determinata situazione come nociva per il sistema, consentendo all’individuo di evitarla in futuro.  Il disgusto svolgerebbe dunque un’azione che potremmo definire didattica, il che contribuisce a spiegare perché ci sottoponiamo alla visione di contenuti ripugnanti.


Fino ad ora abbiamo visto alcune tra le evidenze scientifiche che gli studiosi hanno avanzato nell’intenzione di spiegare perché veniamo attirati dall’orrido. Ritengo però altrettanto importante prestare attenzione anche alle motivazioni dal carattere più intimo e passionale, non sempre passibili di spiegazioni razionali né quantificabili su una scala. Nello specifico, è mia intenzione mettere in relazione l’interesse per la violenza efferata con il tema del sublime e della catarsi. Un importante spunto di riflessione proviene dal libro della sociologa Oriana Binik Quando il crimine è sublime - La fascinazione per la violenza nella società contemporanea". Rifacendosi al “Trattato del sublime”, di autore anonimo, Binik procede a spiegare quanto questa emozione, per lei centrale quando si parla di interesse verso il crimine, sia inafferrabile e di difficile comprensione. Come fa notare l’autrice, posti davanti ad una brutalità, la nostra mente non riesce a darsi delle spiegazioni logiche, causandoci, di conseguenza, sensazioni di confusione e sconcerto che si accompagnano a quelle di curiosità e attrazione. Il sublime esprimerebbe proprio questo stato plurimo della mente, presentandosi come un’emozione sintetica, che tiene insieme il contenuto di due campi, altrimenti separati, permettendo al soggetto di godere della sensazione derivante dall'esplorazione di un’area liminale, in cui può esperire simultaneamente orrore e piacere.  Per usare le parole di Binik:

 

“Con il sublime, in sostanza, il concetto stesso di confine viene attaccato, motivo per cui potremmo definire questo stato emotivo come 'emozione dell’apertura': le sensazioni perdono o minacciano di perdere la loro forma e si confondono con le altre, la vita può convivere con la morte, il dentro con il fuori.”


 

Sul binarismo dentro/fuori ritengo opportuno spendere qualche parola in più. In qualsiasi contenuto gore che possa definirsi tale, vediamo sempre l’interiorità – come viscere, ossa, sangue, vomito, sperma, feci, urina - rompere i confini entro i quali è relegata per congiungersi con l’esteriorità. Mark Seltzer, professore di letteratura all’Università della California, si è riferito all’interesse per questo specifico tipo di immagine con l’espressione wound culture, da lui definita come “the public fascination with torn and opened bodies and torn and opened persons, a collective gathering around shock, trauma and the wound”. 

 

Il mezzo che più di ogni altro si presta a soddisfare questa oscura fascinazione è probabilmente il cinema, in modo particolare quello estremo. Nei film gore, infatti, attraverso la violazione dell’integrità fisica e il superamento dei confini corporei, ciò che è celato all’interno viene portato alla luce: se in Martyrs (2008) il corpo quasi totalmente scarnificato della protagonista ci svela ciò che c’è al di là della pelle, Cannibal Holocaust (1980) si spinge oltre, facendoci vedere un cadavere smembrato e reso una mera sacca di carne dalla quale i cannibali estraggono gli ultimi organi rimasti al suo interno per cibarsene, mentre in Melancholie der Engel (2009), una scena mostra le protagoniste femminili forzate a procurarsi il vomito. Significativi poi sono i minuti conclusivi di American Guinea Pig: Bloodshock (2015) in cui un uomo e una donna, resi cavie da laboratorio e sottoposti a innumerevoli torture, al momento del loro primo incontro consumano un rapporto sessuale. Ben presto l’amplesso si trasforma però in una carneficina che termina in un bagno di sangue, dal momento che i due amanti cominciano a strapparsi a vicenda i punti delle loro ferite, aprendole nuovamente, fino a mettere le mani l’uno nella carne dell’altro in una fusione di eros e thanatos

 

Come dimostra quest’ultima scena, assistere a questo spettacolo in cui i confini dell’interiore e dell’esteriore sono sfumati, oltre ad avvicinarci al sublime, ci consente anche di provare una sensazione profondamente liberatoria, quasi orgasmica. Non a caso, un’espressione francese per riferirsi al momento che segue il picco del piacere sessuale è “petite mort”, ovvero quel momento in cui coesistono la piena incarnazione del sé e il totale abbandono. Questo aspetto di liberazione ci introduce al secondo aspetto che mi sono proposta di approfondire: la catarsi. 


In un'intervista rilasciata a Shivaproduzioni in occasione dell'uscita del suo film Larva Mental (2020), il body artist e regista spagnolo Mikel Balerdi ha esposto il suo punto di vista in merito alla funzione del dolore fisico. Nell’intervista Balerdi definisce il dolore una pulizia spirituale ed emozionale e aggiunge: “è un’esperienza vitale che mi libera da certe catene mentali e fisiche che ho avuto nella mia vita e che il mio lavoro ha spinto fino a una lingua espressiva che, diciamo, marca il mio segno personale”. La sua opera infatti, di violenza cruda - nonché reale - ne è pregna.  

 

Già nei primi minuti vediamo il protagonista, John, intento a masturbarsi con un crocifisso, provocandosi di conseguenza una fuoriuscita di sangue e feci. Dopo aver scoperto le inquietanti tendenze dell’uomo, la sua compagna decide di infliggersi delle gravi ferite fino al suicidio, facendo cadere John in un profondo delirio autolesionista e necrofilo, che ci accompagna fino alla fine del film. Sebbene a primo impatto tutto ciò può sembrare un bieco concentrato di atrocità, una lettura più approfondita dell’opera mette in risalto il disperato desiderio di liberazione che essa racchiude. L’atto violento è qui elevato ad atto artistico, il quale ha una funzione purificatrice tanto per Balerdi che attivamente lo produce, quanto per lo spettatore che, passivamente, ne fruisce. 


 

Pensare alla simbologia che alcune religioni, come quella ebraica e cristiana, hanno attribuito al sangue, ci aiuta a comprendere meglio il riferimento alla catarsi. Nella Bibbia esso ha una valenza salvifica: il sangue di Cristo bevuto durante l'eucaristia, o ancora il sangue delle vittime immolate sugli altari sacrificali nel Vecchio Testamento, così come quello versato sulla croce nel Nuovo, altro non è che un mezzo per espiare il peccato, poiché, come viene detto nel libro Ebrei 9:22 “quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non esiste perdono”. Nonostante questa funzione sanatoria, il sangue, sempre all’interno delle Sacre Scritture, viene paradossalmente messo in relazione con la sporcizia, andando così ad assumere una connotazione negativa. Questa comunione degli opposti ci riporta ancora una volta a vagare per la zona d’ombra in cui la salvezza e lo strazio non si escludono a vicenda ma coesistono, dove  vivere è l’unico modo di morire e morire è l’unico modo per risorgere nei panni di una creatura nuova e libera dal peccato. Le narrazioni ma soprattutto le rappresentazioni visive del brutale, grazie al loro grande potere simbolico, sono quindi uno dei percorsi percorribili dall’essere umano per esorcizzare il “diavolo” interiore. Tale prospettiva però, più che in chiave religiosa, va a mio parere letta attraverso una lente etimologica. Il simbolo (symbállō) è infatti ciò che ha la capacità di mettere insieme, mentre il diavolo (diabàllo) è ciò che divide. 

 

In conclusione, sarebbe proprio questa capacità di riunire aspetti di noi stessi normalmente inconciliabili e di riuscire, tramite ciò, a mettere in scena un atto catartico, a nutrire l’interesse morboso che sentiamo nei confronti della violenza estrema.


Di Sara Ricciardi

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