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Daniele Quadrio

Ideologia e dissenso: modi diversi di fare cinema

Ai movimenti rivoluzionari degli anni Sessanta corrisponde, sul piano cinematografico, una presa di coscienza delle possibilità politiche e ideologiche da parte degli autori di poter rappresentare quelle fratture presenti nella società. All’inizio del decennio successivo, l’opera di Petri costituisce un caso emblematico delle tensioni interne al concetto stesso di cinema politico




Jean-Marie Straub, cineasta francese dichiaratamente marxista, nel 1971 affermò che il giusto destino di tutte le copie del film La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, sarebbe stato quello di bruciare sul rogo. L’autore di tale affermazione non era certo avaro di prese di posizione ideologiche di questo genere: si narra infatti che, successivamente alla proiezione di un suo film a cui era presente, uno sventurato accusò il regista francese di non rispettare i suoi diritti di spettatore, ricevendo prontamente una replica lapidaria: Straub obiettò di non avere alcun interesse per gli spettatori, e che i suoi film erano destinati invece ai cittadini.

 

Dal punto di vista cinematografico, gli anni Sessanta hanno rappresentato una frattura che ha portato a nuove forme di narrazione, non solo a livello estetico ma anche e soprattutto da un punto di vista politico. Il nucleo nevralgico delle riflessioni teoriche poneva al centro la necessità da parte dell’autore di mettere il pubblico nella condizione di prendere una posizione attiva rispetto alle immagini; al racconto della realtà sociale condotto attraverso la spettacolarizzazione degli avvenimenti storici o della quotidianità doveva dunque sostituirsi una nuova forma di narrazione consapevole della propria possibilità di azione su quella medesima realtà. Il modello di riferimento di questa nuova poetica era sicuramente Jean Luc Godard; protagonista indiscusso della stagione della Nouvelle Vague, Godard mise radicalmente in discussione la grammatica stessa della narrazione cinematografica, e con essa anche le implicazioni politiche e ideologiche connesse a un film, sia a livello di forma sia di contenuto. L’ideale di quella generazione di registi consisteva nella creazione di immagini che suscitassero una presa di posizione attiva e consapevole nelle masse.

 

L’inizio del decennio successivo è segnato, per il cinema italiano e non solo, dal più famoso film di Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto; l’impatto che questa pellicola ebbe sul pubblico fu decisamente maggiore del film oggetto delle ire di Straub, e ancora oggi rimane uno dei più significativi esempi di cinema politico che l’Italia abbia prodotto. In un paese profondamente scosso dai movimenti del ’68, ma ancora ignaro del clima di violenza che si sarebbe generato con quelli del ’77, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto diede luogo nella critica a un intenso dibattito sulla legittimità della rappresentazione cinematografica di fatti realmente accaduti. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto rappresenta forse la più emblematica messa in scena delle contraddizioni del potere, incarnata perfettamente dal protagonista, “Il Dottore”, interpretato da Gian Maria Volontè, che qui dona il proprio volto a uno dei personaggi più memorabili del cinema italiano.



 

Il 12 dicembre 1969, quasi un anno prima dell’uscita del film, si verificò a Milano, in seguito all’esplosione di un ordigno, la strage di Piazza Fontana, seguita tre giorni dopo dalla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano, dov’era interrogato come sospettato dell’attentato a Piazza Fontana, rivelatosi poi innocente. L’eco di entrambi gli avvenimenti è tangibile nella pellicola di Petri, che infatti dichiarò fin da subito il suo intento di girare un film contro la polizia. Seppur ambientato a Roma, la serie di esplosioni e i luoghi in cui queste si sono verificate rievocano i fatti di Milano, così come la conseguente reazione dei corpi di sicurezza dello Stato contro i gruppi politici extraparlamentari ritenuti sovversivi; la violenza e le torture perpetrate durante gli interrogatori, resi allucinati e disturbanti dall’utilizzo di ambientazioni spoglie e neutre, divengono sineddoche di tutti i tentativi di repressione da parte dello Stato nei confronti dei movimenti rivoluzionari di matrice anarchica o comunista, perché “la rivoluzione come la sifilide ce l’hanno nel sangue”.


Surreale e immaginifica, la narrazione si sviluppa seguendo costantemente il suo protagonista, quel “Dottore” interpretato da Gian Maria Volontè che funge da chiave di volta e sintesi di tutte le tensioni che il regista vuole mettere in scena; privo di nome o altre generalità, lo spettatore è a conoscenza solo della funzione che ricopre, ovvero capo della sezione politica della Questura, e precedentemente capo della sezione omicidi. Non uomo dunque ma maschera, raffigurazione perfetta di una persona definita esclusivamente dal ruolo di potere che ricopre. Il nucleo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto consiste nell’omicidio, da parte del Dottore, della sua amante e nei continui tentativi da parte del protagonista di fornire indizi che porterebbero alla sua cattura, scoprendo come il suo ruolo lo metta al riparo da ogni accusa. Il paradosso, che emerge fin dal titolo, consiste nella rappresentazione delle nevrosi di un uomo di potere che riconduce alla psicologia del singolo individuo tutte le deformazioni che una carica comporta; parafrasando il testo di Kafka citato alla fine del film: egli è un servo della legge e in quanto tale sfugge al giudizio umano. Il gruppo di appartenenza precede e sovrasta il singolo individuo, divenendo così anche causa delle psicosi che lo investono: essere parte del corpo di polizia non coincide solo con l’impunità, ma comporta inoltre l’impossibilità stessa di essere oggetto di indagine, e dunque significa essere necessariamente al di sopra di ogni sospetto. Numerosi sono i riferimenti letterari nella pellicola di Petri, così come notevole è l’impatto estetico di un film che ha saputo restituire un’immagine complessa e stratificata del potere e delle contraddizioni di quegli anni che ancora oggi mantiene intatta la sua aura; l’indagine, richiamata fin dal titolo, diviene dunque metafisica e psicanalitica mediante l’analisi del suo protagonista.

 

Non mancarono, tuttavia, aspre polemiche all’uscita del film, soprattutto da parte di quelle riviste, come i “Quaderni Piacentini”, legate alla sinistra extraparlamentare: l’accusa era di un’eccessiva spettacolarizzazione, da parte di Petri, di tragedie realmente accadute al solo scopo di lucrare sui fatti. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto fu, infatti, un enorme successo di pubblico, causato forse dall’indignazione per la morte di Pinelli e l’identificazione del Dottore con Luigi Calabresi. Dopotutto, il decennio precedente aveva prodotto anche in Italia una maggiore consapevolezza della possibilità di rottura delle forme classiche al fine di ottenere maggiore libertà espressiva: Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci sono stati sicuramente i due autori che più di altri hanno saputo plasmare un cinema che rispecchiasse la volontà di cambiamento del Paese, sfociata infine nei movimenti del ’68. L’esordio di Bellocchio in particolare, I pugni in tasca, uscito nel 1965, rappresenta tuttora un archetipo di cinema politico nell’accezione intesa dalla Nouvelle Vague: emerge una visione patologica della condizione familiare, bersaglio polemico del ’68, mediante l’analisi delle dinamiche interne a una famiglia borghese di Bobbio in cui la dissoluzione del nucleo è vista come un atto di purificazione da parte di alcuni membri.




Le contraddizioni implicite nell’etica borghese, allo stato borghese, affiorano dall’interno grazie a un modo di intendere il cinema che non si limita alla presentazione di contenuti di carattere eminentemente politico ma che diviene politico grazie allo stile di regia, finalizzato a una presa di coscienza degli spettatori di fronte alle illusioni dello stato delle cose corrente. Diversamente da I pugni in tasca, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto appare la rappresentazione di una realtà sociale ritratta dal punto di vista di un intellettuale che opera una mediazione culturale notevole nella riproposizione di fatti realmente accaduti. Questa componente non inficia tuttavia l’impatto straordinario del film di Petri: seppure forse abbia delineato delle figure troppo consapevoli del proprio ruolo, ha saputo indagare con occhio critico tutte le contraddizioni interne all’istituzione stessa spingendosi fino alle nevrosi che questa genera sugli individui che ne divengono parte. Il delirio finale in cui i superiori del Dottore lo istruiscono sulla sua innocenza in quanto tutore della legge chiude simbolicamente un circolo che investe parimenti l’impunità per le azioni commesse e la possibilità di repressione quasi illimitata verso coloro che attentano in qualunque modo all’integrità i poteri tradizionali, poiché, come affermato dal personaggio interpretato da Volontè nel discorso di insediamento a capo della sezione politica della Questura: "L'uso della libertà minaccia [...] le autorità costituite, l'uso della libertà che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice [...] Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile! Scolpita nel tempo. [...] A noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!"


Di Daniele Quadrio

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