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Davide Russo

C’eravamo tanto amati: cinquant’anni dalla disillusione

Dopo un breve scorcio sulla stato della società italiana durante l’uscita del film, l’articolo si propone di analizzare C’eravamo tanto amati di Ettore Scola su due binari: da una parte riflettendo sui mutamenti socioculturali del nostro paese, dall’altra analizzandone la dimensione meta-cinematografica.




Quando nel 1974 questa brillante commedia di Scola approda nei cinema italiani, il nostro Paese è immerso in un clima tutt’altro che splendente. Da qualche anno era scoppiata quella bomba a Milano in Piazza Fontana che aveva indotto l’Italia intera ad un processo di ulteriore cambiamento attraverso l’orrore di ingenti attentati ai civili e a funzionari dello Stato, rapimenti, crisi energetiche, tensioni politiche e studentesche che affollavano tv e giornali ogni giorno. Le nottate spensierate alla rincorsa della dolce vita in quel periodo dorato che venne definito “boom economico” erano ormai al capolinea. Gli italiani, dopo il ventennio fascista e dopo la sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, avevano goduto di un momento di tregua che nella metà degli anni Settanta stava tristemente concludendo il suo corso. In questa epopea attraversata nell’arco di trent’anni s’inserisce la grande intuizione di Scola per scrivere questo film: la disillusione; ovvero, quello schiaffo rivelatore della realtà interpretato come un sentimento terrificante e al contempo nostalgico che indusse il regista (e tutti gli italiani) a pensare che forse l’Italia che avevano cominciato ad immaginare nel dopoguerra era lontana da quella corrotta,  individualista e ormai completamente aderente al modello capitalista che stava emergendo nel corso degli anni ’70.


Scola, nella prima parte del film, mette in scena con un precisissimo bianco e nero i tre protagonisti della storia: Gianni, Antonio e Nicola, interpretati rispettivamente da Gassman, Manfredi e Satta Flores, che combattono partigiani per liberare l’Italia dai tedeschi. Ma è solo quando vediamo i nostri protagonisti qualche anno dopo, nella loro espressione borghese, che essi ci rivelano la loro reale ma differente natura e inclinazione. Attraverso l’uso della rottura della quarta parete (già comune nella commedia americana ma per nulla tipico nel cinema italiano di quel periodo) i personaggi riflettono perfettamente la realtà del tempo grazie ad una scrittura brillante che racconta tre uomini complementari all’archetipo sociale dell’epoca cuciti addosso agli attori feticcio e indiscussi protagonisti dei precedenti trent’anni di cinema italiano. Il meccanismo del film procede su due binari: da un lato la rappresentazione quasi speculare di un Paese che cambia e non si riconosce più; dall’altro, una rappresentazione squisitamente meta cinematografica in cui gli stessi autori e attori (il cameo di Fellini e Mastroianni su tutti) riflettono su loro stessi e il cinema che hanno creato dalla fine degli anni ’50 fino a quel momento.


La storia inizia partendo da Antonio (Manfredi): modesto, bonario, che appena terminata la guerra s’innamora di Luciana (Sandrelli) e conduce una vita piuttosto misera come portantino in un ospedale, contesto nel quale non riesce più a portare avanti le sue battaglie e tutti gli ideali per cui ha rischiato la pelle durante la guerra. Persino l’incontro con Gianni a guerra terminata finirà in una cocente delusione di affetti quando quest’ultimo riesce a conquistare Luciana e a fuggire con lei. Ma anche Gianni abbandonerà Luciana per sposare una donna che non ama e figlia di un ex fascista palazzinaro (Aldo Fabrizi), in cui Gianni intravede un ricco futuro in barba a tutti gli ideali traditi. Ed è a questo punto del film che cominciamo a vedere con chiarezza quel mutamento socioculturale che ha sostituito costumi e valori del nostro Paese per sempre: è emblematica la scena in cui il terzo amico Nicola (Satta Flores), intellettuale, cinefilo incallito e appassionato di De Sica risponde alle domande di Mike Bongiorno (che interpreta sé stesso) in una replica perfetta di “Lascia o raddoppia.” Ma quando Nicola risponde erroneamente ad una domanda oggettivamente ambigua su Ladri di biciclette (1948) ecco che non solo perde il montepremi (vincendo però una Seicento di consolazione), ma si ritrova unico combattente solitario per una battaglia teoretica e complessa, impossibile da affrontare nel contesto di un quiz serale. Scola in questa sequenza descrive in una manciata di minuti sia la problematica riguardante gli intellettuali di sinistra arrabbiati con la società dei consumi che avanza ma incapaci di comunicarne l’indignazione (satira che tutt’oggi ricopre un ruolo più che attuale), sia l’avanzata galoppante della televisione. Infatti, il nuovo mezzo rivoluzionario promette ricchezze immediate e addirittura, a differenza del cinema, non serve neppure uscire di casa per godere delle meraviglie che offre sullo schermo. Nella stessa scena, ma dal punto di vista della villa del suocero di Gianni, tutti sono collegati in diretta per assistere al quiz e di televisori ce ne sono persino quattro solo nella sala da pranzo in cui è ambientata la scena, uno per ogni lato della parete così che a nessuno possa sfuggire nemmeno un secondo di diretta.


La parte centrale invece ci porta alle soglie degli anni ’60. Gianni è ancora un operatore sanitario che giunge davanti alla Fontana di Trevi per intervenire sul posto. Ma non è una notte qualsiasi a Roma, è quella in cui Federico Fellini sta girando la celebre scena con Anita Ekberg e Marcello Mastroianni ne La dolce vita (1960), il film definitivo che sotterra gli anni della guerra in un brutto incubo dimenticato, mostrando i primi segni della società del consumo di cui Fellini già avvertiva il decadentismo culturale e valoriale. Lo stesso Scola, quando gira il suo film, non solo riconosce questa previsione lucida sull’analisi sociale che fece Fellini al tempo, ma addirittura l’avvalora reinserendola nel proprio film come manifestazione del sentimento di Antonio che proprio in quella piazza riconosce tra le comparse Luciana e ogni tipo di acredine nei confronti della ragazza sembra svanire fino a quando non finisce per fare a botte con il suo nuovo fidanzato perdendo di nuovo la sua fiducia.



Verso il finale, quando ci inoltriamo negli anni ’70, le posizioni dei nostri protagonisti ci dicono molto di come si è evoluto il Paese: Gianni è diventato meschino, bugiardo e corrotto fino al collo pur di conservare con avidità il patrimonio acquisito in questi lunghi anni. Nonostante il benessere però, è ridotto ad una sconfinata solitudine in quanto pieno di rimorso per aver abbandonato Luciana e tutti gli ideali di gioventù. È ossessionato dal domandarsi come sarebbe stata la sua vita se avesse sposato lei. Nicola, nel frattempo, partecipa ad un incontro pubblico di Vittorio De Sica (ovviamente interpretato da sé stesso), il quale racconta proprio l’aneddoto oggetto della domanda posta da Mike Bongiorno qualche anno prima, dimostrando però che la risposta che diede Nicola era vera e che avrebbe meritato la vittoria. Nonostante le insistenze del figlio, Nicola lascia l’incontro senza neppure rivolgere parola al suo idolo, riconoscendo a sé stesso che quel tempo di curiosità, slancio rivoluzionario e fervore artistico sia purtroppo scomparso.


Quando sul finale gli amici si ritrovano pranzando nell’osteria che frequentavano da giovani, tutti e tre sono ormai completamente disillusi e invecchiati. Più tardi finiscono addirittura per fare a botte, per poi riconciliarsi solo quando Antonio conduce gli altri due amici alla sorpresa finale: si è finalmente sposato con Luciana, e proprio quella notte insieme alla moglie stanno aspettando all’esterno di una scuola elementare per poter iscrivere i figli prima che si esauriscono i posti. Antonio ha perso ogni tipo di battaglia sul piano sociale ed economico ma almeno è riuscito nella gara degli affetti a sposare la donna che amava. Nicola è un intellettuale sconfitto su ogni fronte politico e culturale ma almeno finirà la sua vecchiaia in compagnia di un figlio. Gianni invece non riesce ad informare gli amici delle sue ricchezze e dei suoi successi, continua a mentire e arriva persino a fingere di essere un guardiamacchine pur di nascondere la verità e, quando sul finale ritrova Luciana sposata questa volta con Antonio, non regge e sparisce nella notte.


Luciana emerge come una donna volubile ma onesta, che si ritrova forse rappresentativa dell’Italia intera, contesa per tutto il film da più parti, da uomini differenti che incarnano i modelli aderenti alle varie espressioni del pensiero politico dell’epoca. Tutti i protagonisti, infatti, hanno dovuto scendere a compromessi con la propria vita, scegliendo di restare fedeli ad uno solo di quei valori che nella società contemporanea ci sembrano antitetici e faticano a coesistere. Nicola è rimasto l’unico aderente ai principi politici della gioventù, ma una volta adulto si rende conto di come il mondo sia cambiato troppo per venire a patti con quella realtà. Antonio è l’eterno sconfitto, un modello rappresentativo dell’italiano medio che lavora una vita intera faticando con sudore, che ha a che fare con la burocrazia statale e che crede ancora nella giustizia sociale, ma che si dimentica di applicarla poiché occupato dall’impegno di mantenere la donna che ama e i suoi figli. Gianni risulta forse il più sconfitto di tutti, l’uomo che ha rinunciato ad ogni tipo di credo politico inseguendo un modello arrivista e vincente economicamente a discapito degli affetti genuini e più puri, ritrovandosi dunque in completa solitudine in una gigantesca villa vuota. Sotto gli sguardi attoniti e increduli di Manfredi, Sandrelli e Satta Flores avviene l’ultima scena finale in cui riscoprono proprio Gassman tutt’altro che povero gettarsi nella sua piscina privata. L’ultima disillusione, l’ultima beffa prima di chiudere il film, l’ultimo scherzo della Commedia all’italiana prima di terminare per sempre.


Di Davide Russo

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