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Elia Rover

La vita come un film di Woody Allen

Un regista che continuamente si mette davanti alla camera è un regista che desidera lasciar entrare la sua vita nel cinema, il cinema dentro alla vita. Nei film di Allen realtà e finzione giocano a specchiarsi ed entrambi ne escono trasfigurati, forse con delle consapevolezze in più.




“I have some trouble between fantasy and reality” dice Alvy Singer/Woody Allen all’inizio di Annie Hall (1977) mentre una meravigliosa ragazza con un vestitino rosso manda un bacio dritto al centro della camera. Sguardo in macchina, bisogna stare attenti! Woody ci sta confessando quello che sarà il manifesto programmatico di gran parte della sua filmografia: un’indagine romantica sullo scarto che inevitabilmente intercorre tra ciò che ci accade e il nostro modo di raccontarlo. In Annie Hall, ad esempio, è implicitamente evidente che ogni ricordo che ci viene mostrato sia filtrato e distorto dal punto di vista del protagonista (“My analyst says I exaggerate my childhood memories but I swear I was brought up underneath the roller coaster in the Coney Island section of Brooklyn”). Ma si pensi anche a un film come Deconstructing Harry (1997), in cui Allen interpreta uno scrittore in crisi d’identità: ai momenti di vita presente dell’autore vengono alternati momenti di vita passata inscenati attraverso rappresentazioni filmiche dei suoi romanzi - e tutte le persone a lui strette gli rimproverano continuamente di essere un furbone che non fa altro che modificare la realtà dei fatti attraverso i suoi romanzi per salvarsi la faccia. Ma è nel film del 1984 The Purple Rose of Cairo che il regista cerca di affrontare il tema in una modalità leggermente inedita, in cui la con-fusione fra mondo reale e mondo finzionale si rende tremendamente esplicita. 


The Purple Rose of Cairo è un film piuttosto eccezionale nella produzione di Woody Allen perché  è il secondo (il primo fu Interiors del 1978) in cui il regista non compare come attore. The Purple Rose of Cairo ha infatti come protagonista Mia Farrow nei panni di una giovane donna che lavora come cameriera in una piccola cittadina del New Jersey. Cecilia è sposata con Monk, un uomo dispotico, fannullone e disoccupato che spende le giornate a bere e a sollazzarsi con altri compagni di sventura. Stanca e delusa dalla sua vita quotidiana, Cecilia passa il suo tempo libero nella sala cinematografica del paese, trovando rifugio e consolazione nello spazio che va dal proiettore allo schermo. Un giorno rimane folgorata dalla visione di un film in particolare, The Purple Rose of Cairo appunto, e comincia a recarsi quotidianamente al cinema per immergersi di nuovo nella pellicola. All’ennesima proiezione accade qualcosa di straordinario: il protagonista del film, Tom Baxter,  interrompendo la scena si volta verso Cecilia e inizia un dialogo con lei. Affascinato dalla ragazza, attraversa lo schermo e le propone di passare del tempo insieme. Tom ha tutto quello che ci si può aspettare da un personaggio maschile di un film anni 40’ dall’ambientazione esotica: è bello, avventuroso, coraggioso, leale, disposto a morire per le persone che ama. Lo si capisce molto bene quando, finito per caso in un bordello, si rifiuta di avere rapporti con le donne che lo ospitano perché innamorato e fedele alla protagonista. Niente di più lontano da quel mentecatto di Monk, subdolo e spregevole, a tratti violento; lo spettatore intuisce ben presto che l’amore fra lui e Cecilia si è spento ormai tempo addietro.



Ma Tom è anche molto distante dai personaggi alleniani classici, non ha nulla da spartire con i protagonisti dei film realizzati fino ad allora. Ciò a cui il regista aveva abituato il pubblico fino ad allora erano ripetuti ritratti dello stesso carattere: ironico, disilluso, intellettuale maldestro e sbadato, razionale e fobico, nevrotico e paranoide, smaliziato ma mai volgare; di sinistra ma annoiato dagli ambienti radical, troppo orgogliosamente individualista per aderire coerentemente nel tempo a una qualsiasi idea, ripetitivo e cinico, mai del tutto sbilanciato nei giudizi proprio in nome di questo cinismo. Una persona insomma che i più sarebbero in grado di apprezzare solo grazie alla distanza che uno schermo può fornire. Forse è proprio in quest’ottica che andrebbe letto The Purple Rose of Cairo: Allen in una certa misura vorrebbe essere Tom Baxter, anzi forse ci sta suggerendo che Tom Baxter è il partner che chiunque meriterebbe, che incarna esattamente tutto ciò che Woody vorrebbe ma non può essere. È come se Allen si stesse concedendo di indossare le vesti di un personaggio agli antipodi del suo carattere e, per una volta, non è necessario che sia lui stesso a interpretarlo perché Tom è del tutto “finto”. Osserva il mondo da dietro lo schermo e così, superandone la soglia, si fa posto nel film che noi stiamo guardando, il posto solitamente occupato dal regista newyorkese . È un riflesso opposto e speculare di  ciò che Woody sarebbe se non fosse, paradossalmente, una persona che funziona male nella vita ma benissimo nell’arte, una persona reale.


Se non c’è nulla di Woody in Tom, c’è almeno una componente tipica dei personaggi alleniani rintracciabile in Cecilia: il suo amore a tratti feticistico per il cinema; la speranza, mai sopita, che nell’arte si possa trovare un sollievo almeno temporaneo alle angosce della vita. O almeno così pare… Com’è ovvio, la situazione si complica ulteriormente quando la casa di produzione del film, preoccupata dall’avvenimento, invia l’attore che interpreta Tom Baxter, tale Gil Sheppard, nella cittadina di Cecilia, per cercare di convincerlo a rientrare nel film. Cecilia rimane subito affascinata da Gil, a cui rivolge sguardi carichi di meraviglia, lui sembra ricambiare e fra i due nasce qualcosa. Posta davanti ad un bivio, scegliere se entrare nel film con Tom o rimanere nella realtà per scappare ad Hollywood con Gil, la ragazza sceglie la seconda opzione. Il giorno seguente però Gil dà buca a Cecilia e parte per Hollywood senza di lei. Il film si chiude con un primo piano sulla nostra protagonista che con gli occhi lucidi accenna un sorriso malinconico. Chissà come sarebbero andate le cose se fosse entrata nel film con Tom, sarebbe stata felice? E se Tom non fosse mai uscito dallo schermo, starebbe ancora con Monk? E quell’ultima inquadratura sul suo volto disilluso? Gentile momento di pace o amara delusione generata da un’aspettativa irrealistica? Mentre mandiamo giù questo boccone agrodolce sorge spontanea un’ulteriore domanda sulle proprietà curative della settima arte. Woody è molte cose, ma non di certo un ingenuo: forse andrebbe detto che la funzione terapeutica del cinema non si esercita nella sua capacità di distrarci, ma nella possibilità di rivivere attraverso di esso i momenti più salienti delle nostre vite.



C’è un passaggio ne Il Regno di Emmanuelle Carrère in cui l’autore cerca di rendere conto del suo particolare stile di scrittura che unisce la cronaca storica a elementi autobiografici molto personali: “A me non danno fastidio quelli che in gergo si chiamano “sguardi in macchina” […]. Faccio vedere cosa indicano quegli sguardi, ossia quello che nel documentario classico si presume debba restare fuori campo: la troupe che gira, io che dirigo la troupe, e i nostri diverbi, i nostri dubbi, i nostri complicati rapporti con le persone che riprendiamo”. Nel cinema di Allen, gli “sguardi in macchina” non indicano la troupe; è piuttosto la componente macchiettistica insita nel personaggio di Allen, con quegli occhiali troppo grandi che sporgono da quel buffo naso a farci capire che non esiste più differenza fra dentro e fuori, fra ciò che è reale e ciò che è finto. È il fuori campo a tornare inevitabilmente e volutamente all’interno della scena. “I complicati rapporti con le persone che riprendiamo” sono la prima e l’unica cosa di cui valga la pena parlare (si pensi al sodalizio artistico-sentimentale con Diane Keaton e il successivo con Mia Farrow), anche e soprattutto del rapporto ossessivo con se stessi, con le proprie infinite eteronomie.


Tornando ad Annie Hall, in una delle prime scene la voce narrante del protagonista ci spiega che suo padre gestiva per lavoro una pista di autoscontri. Nella scena vediamo il padre, in piedi al centro della pista, mentre cerca di condurre il “traffico” di giovani divertiti che fanno a botte con le macchine. Ed ecco che pochissimi secondi dopo vediamo il piccolo Alvy riapparire irruentemente nell’inquadratura a bordo di una macchinina. Alvy, e quindi Woody, non può non essere all’interno dell’inquadratura. Mentre lo vediamo irrompere in scena sentiamo ancora la sua voce narrante che suggerisce: “I used to get my aggression out through those cars all the time”: con il solito piglio ironico ci sta dicendo che affinché il film vada avanti non si può parlare di altro che non di lui. Deve essere in scena, deve potersi vedere.



Verso la fine del film, Alvy raggiunge Annie a Los Angeles in un estremo tentativo di riconquistarla, ma in poco tempo lei lo liquida, così lui si dirige verso la macchina per tornare all’aeroporto. Peccato che fra le altre cose Alvy sia anche un pessimo autista e cercando di uscire dal parcheggio urti altre due auto in movimento. In quegli istanti al posto degli incidenti Allen inserisce per una manciata di secondi grazie al montaggio alternato proprio quelle scene agli autoscontri che ci aveva mostrato in precedenza. Infine, ecco la risposta all’interrogativo che Singer stesso ci pone ad inizio film a proposito della sua incapacità di capire perché la relazione con Annie sia finita: è ancora quel bambino inquieto, che ruba la scena al padre, che parla degli altri solo in funzione di se stesso, in modo idiota e idiosincratico, egoriferito, facendosi gioco di un “Io” che è insieme la sua fortuna e la sua prigione. E se mandandoci un bacio attraverso lo schermo ci stesse soltanto chiedendo: “come potrebbe essere altrimenti?”


Di Elia Rover


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