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In una stanza ci sono Dante, Tarantino e Wittgenstein

Ogni tanto le storie che raccontiamo sembrano dimenticarsi della realtà. Altre volte sembrano ricordarsene fin troppo bene. Cosa dire, invece, quando sembrano volerla cambiare? chi pensiamo di essere quando con le nostre storie vogliamo cambiare la storia? Lo chiederemo a Dante Alighieri e Quentin Tarantino.




“E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni

per la corona che già v'è sù posta,

prima che tu a queste nozze ceni,

sederà l'alma, che fia giù agosta,

de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia

verrà in prima ch'ella sia disposta.

La cieca cupidigia che v'ammalia

simili fatti v'ha al fantolino

che muor per fame e caccia via la balia.

E fia prefetto nel foro divino

allora tal, che palese e coverto

non anderà con lui per un cammino.

Ma poco poi sarà da Dio sofferto

nel santo officio; ch'el sarà detruso

là dove Simon mago è per suo merto,

e farà quel d'Alagna intrar più giuso.”

Dante, Paradiso, XXX, vv. 133-148


“You’re real. Right?.”

Cliff Booth, Once upon a Time… in Hollywood (2019), da una sceneggiatura di Quentin Tarantino


Qualche volta le cose vanno male. Qualcuno prova a metterci una pezza. È il 24 agosto 1313 e a Buonconvento, nelle vicinanze della città guelfa di Siena, si spegne Enrico VII di Lussemburgo, re dei Romani, nel mezzo della sua lotta per interrompere la guerra fra città guelfe e ghibelline che divideva l’Italia centrale e settentrionale. Un esule Dante Alighieri riserverà ad “Arrigo” un seggio nella candida rosa. Non esattamente un posto da poco, visto che da lì si può direttamente guardare Dio.


È il 13 agosto 1969 e a Cielo Drive, presso Los Angeles, viene uccisa Sharon Tate, astro ascendente della Hollywood degli anni ’60 grazie a Valley of the Dolls (1967) e The Fearless Vampire Killers (1967), brutalmente assassinata da alcuni membri della Manson Family. Quentin Tarantino, esattamente cinquant’anni dopo, nel suo Once Upon a Time… in Hollywood (2019) racconterà una versione della storia in cui non solo Sharon Tate sopravvive alla Manson Family, ma i suoi assassini vengono a loro volta brutalmente uccisi dal personaggio fittizio Cliff Booth, stunt-double dello sgangherato attore Rick Dalton, in preda ad un trip di LSD. Gli assassini di Tate vengono massacrati e nelle sale la gente si diverte.


 

Starete pensando: “questi due sono matti”. Come mettere Once Upon a Time… in Hollywood e la Divina Commedia? “Dovreste studiare meno filosofia”. Su questo potremmo essere d’accordo. Ma, alla fine, Dante e Tarantino non stanno facendo la stessa cosa? L’idea, qui, sembra essere: qualcosa è andato male, perché non provare a metterci una pezza? Perché non pensare a come sarebbero andate le cose se la realtà fosse giusta? Qualcuno, un realista storico estremo, potrebbe subito obiettare: “Ma chi pensate di essere voi per dire che la storia è stata ingiusta? La storia è una cosa seria, non ha a che fare né con la candida rosa né con Di Caprio e Brad Pitt. La storia è fatta di sangue e lacrime, di lunghi processi e di cambiamenti, e voi pensate di cambiarla con una telecamera?” Chiediamo al realista storico estremo di fermarsi un secondo e di darci un minuto: proveremo a capire che cosa pensiamo di fare quando facciamo qualcosa come quello che fanno Quentin Tarantino e Dante Alighieri, raccontandoci una storia che vuole cambiare il reale. Poi proveremo a spiegargli chi pensiamo di essere. 


Perché questa scelta? Perché non decidere di inventare una storia di sana pianta invece che stravolgere il passato? “Sarebbe stata una cosa decisamente più umile”. Incalzati dal realista storico che è in noi, abbiamo lavorato su questa così banale domanda e siamo giunti alla conclusione che il passato si può cambiare e che le storie sono il mezzo per eccellenza per cambiare le regole del gioco e indagare un possibile cosa sarebbe successo se. La risposta che ci siamo dati è che le storie, in questo senso, appaiono come lo strumento ottativo per eccellenza. Ora, come i gamberi, siamo andati al contrario e abbiamo ricostruito le possibili ragioni di questa posizione. Che cosa permette una mossa come le due che aprono questo articolo? Sembra esserci un presupposto non detto dietro all’idea che la finzione possa “cambiare” la storia: la realtà è profondamente narrativa e noi narratori abbiamo la possibilità di cambiarla. Se i nostri non pensassero così, che senso avrebbe allora concludere Once Upon a Time… in Hollywood con un rimando così forte ad una dimensione reale, ma ottativa? Così si andrebbe contro Aristotele; le storie non hanno solo gradi di verosimiglianza - che è una categoria che non descrive il funzionamento del reale, ma come noi “crediamo” a quello che avviene davanti a noi - ma hanno una comunanza metafisica con la realtà. Forse Tarantino è un narratore metafisico (etichetta che ci siamo inventati noi), forse veramente crede che la vicinanza strutturale fra reale e finzionale è ciò che permette di convertire l’uno nell’altro. Ovviamente, il narratore metafisico non vuole negare che ci sia una distinzione fra finzione e narrazione: una la scrivi su un pezzo di carta, o con una telecamera, o con una stringa di codice, mentre l’altra è lì, davanti a te. Insomma, il narratore metafisico non è un matto, ma quello che vuole dire è che la distinzione si colloca solo a livello di struttura, ma che a livello di “realtà”, la finzione non sia altro che una storia alternativa, un’altra dimensione. Così quello che fa il narratore metafisico non è cambiare una narrazione, quella “reale”, ma crearne una parallela che ha tanto ragione di essere come la prima. Nel mondo di Tarantino, non solo Sharon Tate non è morta, ma gli assassini della famiglia Manson sono stati brutalmente uccisi da un attraente stuntman sotto effetto di LSD.



Giunti a questa conclusione, ci siamo guardati in faccia ed entrambi non eravamo convinti. Qualcosa non tornava. Come folgorati sulla via di Damasco, ci siamo resi conto dell’assurdità di certe conclusioni. Cambiare la realtà? Il passato, ciò che è già successo, può cambiare? Forse il punto della questione non è se sia possibile cambiare la realtà, ma se le narrazioni ci regalano qualche tipo di soddisfazione.


Nel nostro caso, come in tanti altri, alla fine abbiamo trovato l’inizio. La relazione tra realtà e finzione sta all’origine della narrazione. È il motivo per il quale noi esseri umani amiamo così tanto raccontare storie, perché ci riesce così bene e perché lo facciamo in continuazione - non a caso Jonathan Gottschall parla di homo fictus. Il sottile confine che divide ciò che è successo da ciò che vorremmo fosse successo è al centro del nono film di Tarantino. La sceneggiatura mischia personaggi e fatti reali a personaggi inventati, con tanto di conclusione di eventi sicuramente non fedele alla realtà dei fatti. Ma ciò che ha più attirato la nostra attenzione sono dei piccoli momenti in cui la sceneggiatura, attraverso i suoi personaggi, ci invita a ricordare che quelle che stiamo vedendo sono solo delle impersonificazioni, che Sharon Tate in realtà è Margot Robbie. La scena si sviluppa così. Sharon Tate (Margot Robbie) decide di andare ad uno spettacolo pomeridiano di un suo film appena uscito. Arrivata al botteghino, rimane sorpresa nel notare che la ragazza non l’abbia riconosciuta. Non solo non la riconosce, ma stenta a credere che quella che si trova davanti sia la stessa attrice di Valley of the Dolls. Dopo essersi convinta, la fa entrare, ma non senza prima averle scattato una foto davanti al poster, “so people will know who you are”. E questa non è l’unica scena. Nell’ultima parte del film Cliff Booth chiede a quello che dovrebbe essere fra gli assassini di Tate, il realmente esistito Tex Watson, “You are real, right?” per poi esplodere in una sonora risata. Oltre al fatto di essere sotto droghe, perché mai glielo chiede? Volerci allontanare dal racconto non è una grande mossa. Prima di tutto, sappiamo bene che stiamo guardando un film, che le persone non sono realmente quello che dicono di essere. Eppure, in una certa misura, lo sono veramente. Entrando nella sala del cinema stringiamo un patto: quello che vediamo sullo schermo è reale e sta succedendo veramente. Ricordarci che Margot Robbie non è Sharon Tate crediamo sia una scelta esplicita del regista di volerci allontanare dai fatti reali, e sostituirli per due ore e quaranta con i suoi. Questa intenzione si vede benissimo anche nelle scene finali, le scene di violenza à la Tarantino. Ma in questo caso la violenza è così teatrale ed esagerata che pare quasi una parodia.  Quando mai una persona a cui è stata presa a morsi la faccia riesce a gridare senza fermarsi e correre all’impazzata cadendo in una piscina, per poi riprendere a gridare? Fin troppo anche per il nostro Quentin. Ma la storia è sua e ne può fare quello che vuole. Gli omicidi “reali” non sono stati sicuramente altrettanto teatrali e grotteschi: perché si tratta di una storia - ispirata a fatti realmente accaduti - inventata.



Tarantino, Dante, Roberto Saviano ed Émile Zola - perché anche se vuoi essere aderente alla realtà, stai pur sempre facendo quel che vuoi - cos’hanno in comune? Prendono delle persone del mondo reale e ne fanno ciò che vogliono. Perché, alla fine, nemmeno loro sono diversi dal “selvaggio” di Wittgenstein, che con una lancia trafigge l’immagine del nemico, sebbene sia un raffinato costruttore di capanne. Perché, alla fine, “la rappresentazione di un desiderio è eo ipso rappresentazione del suo esaudirsi” (“Note sul Ramo d’oro di Frazer”, 1975): è rappresentazione di un desiderio reale, costruito nel mondo di tutti i giorni, che tende alla soddisfazione di quel desiderio. E all'interno della narrazione tutto è concesso, anche la soddisfazione di desiderio fuori dai limiti del tempo, e a noi va bene così.


Di Alice Baccega e Andrea Randisi

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