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Elia Rover

1. Il Nuovo Mondo

Killers of the flower moon segna un punto di non ritorno nella filmografia di Scorsese. Per la prima volta nella sua antropologia della criminalità uno sguardo diverso sul tema della responsabilità apre alla lucida speranza in un mondo migliore, alla speranza che la storia possa fare giustizia

 

"Perchè sei venuto qui?"

"Lavoro con mio zio"

"Hai paura di lui?"

"No, lui è l'uomo più buono al mondo"


Così le prime battute fra Ernest Burkhart e Mollie Kyle a proposito dello zio di lui, William Hale, ci lasciano subito con una domanda: il nostro Ernest è davvero così stupido? Sembrerebbe di sì. Ma lo scambio dice qualcosa in più anche su Hale: abituato a vestire i panni del pericoloso mafioso, questa volta De Niro viene declassato a maldestro Don Rodrigo che getta la sua ombra sulla comunità dei nativi americani arricchiti dal petrolio. Manipolatorio sì, ma anche ridicolo, convinto di farla franca oltre ogni evidenza fino alle ultime battute del film , lontano dalla crudele spietatezza che contraddistingueva i personaggi di Scorsese in passato. La violenza qui non nasce più da uno slancio di incontrollabile onnipotenza (la famosa scena della penna in Casinò), non è l’implosione assassina sintomo di una società malata che confina l’individuo alla solitudine (Taxi Driver); è piuttosto la manifestazione di un programmatico piano diabolico messo in atto dal primo secondo. Un piano messo in atto questa volta da soldati impreparati, superficiali e ottusi. Alla pervasività del timore suscitato da quegli scatti d’ira che potevano colpire da un momento all’altro (l’iconico “Mi trovi buffo?” di Joe Pesci in Goodfellas è il massimo esempio di una tensione onnipresente che poteva degenerare da un momento all’altro) si sostituisce una violenza subdola, posticcia e depotenziata, che in ultima battuta ha quasi degli aspetti comici.


Momento emblematico di questo ribaltamento è la scena della punizione messa in atto dallo zio ai danni del nipote in seguito a un errore grossolano di questo. Hale preleva Ernest da casa a bordo di un’auto che ha un rumore da fattoria come clacson, per poi condurlo all’interno di una specie di loggia e costringerlo ad inginocchiarsi per subire una punizione bambinesca. Il vecchio Don del villaggio, padre putativo e meschino ma mai totalmente in controllo della situazione, punisce il figlioletto indisciplinato: prima sculacciandolo e poi ribadendogli la propria importanza per la causa. Viene da chiedersi perché un regista che ci ha abituato a mafiosi terribili - che non esitavano a spezzare le dita ai propri sottoposti per avere prova della loro fedeltà, come il povero poliziotto interpretato da Di Caprio in The Departed - scelga di mostrarci una scena tanto grottesca.


Prima di umiliare il nipote, Hale ha l’accortezza di rimuovere il libro della loggia dallo scrittoio sul quale Ernest si piegherà. Scorsese, come in passato, ci segnala che siamo in un territorio privo di leggi morali. Il suo cinema ha sempre vissuto della contrapposizione tra mondo famigliare e mondo criminale, dove il primo veniva spesso abbandonato in nome del profitto e del potere. Ma se un tempo il regista indugiava curioso, quasi affascinato, sulle figure di uomini che agivano violentemente spogli di ogni valore, ora il suo cinema cerca di fare i conti con l’eredità di quella modalità di rappresentazione passata. Eredità con cui il regista aveva in parte fatto i conti con il precedente The Irishman, accusato da molti di soffrire troppo marcatamente di un difetto a monte: l’eccessiva età degli attori rendeva poco credibile il loro ruolo. Secondo me invece, l’effetto che Scorsese voleva suscitare era esattamente questo. Il risultato è l’epilogo tremendamente triste di un uomo troppo vecchio per cambiare, aggrappato con le unghie ai valori di un mondo che, appunto, non esiste più. Lo stesso discorso si può applicare a William Hale: gli eventi che osserva attentamente ai cinegiornali sono riflessi che corrono sui vetri dei suoi occhiali senza lasciare traccia sulla coscienza, simbolo di un cinico calcolatore che è però inquietante solo nella misura in cui si propone come unico modello paterno possibile. Un mostro, dunque, più stupido che cattivo.


Anche la svolta finale successiva all’ultimo dialogo fra Ernest e Mollie, con l’abbandono definitivo di lei, assume toni canzonatori. Le vicende della Storia sono materiale d’intrattenimento da cabaret; si ride della goffaggine dei protagonisti, con Ernest ridotto a bere birra con il fratello in una roulotte e Hale parcheggiato in una casa di riposo (come in The Irishman) dopo aver tentato di riscattarsi presso gli Osage con l’ultima, patetica lettera. Mollie è, in realtà, la vera alternativa al mondo di menzogna di Ernest e Hale; mondo fortemente machista, convinto che le donne Osage vivano ignare delle maldestre macchinazioni di chi brama la loro ricchezza. Mollie, donna e Osage, incarna appieno la possibilità di una nuova etica; Mollie, che sospetta dall’inizio i raggiri degli uomini bianchi e rimane lucida fino alla fine (il “tu sarai il prossimo” rivolto a Ernest nel momento peggiore della sua condizione è una condanna glaciale); Mollie, che provano instancabilmente a fiaccare, che attende i suoi nemici sulla riva della preghiera, che sa aspettare senza giudicare, che sa dare una seconda opportunità - che sia solo una però.


Il cinema di Martin è sempre stato in fondo antropologia della criminalità; non cerca spiegazioni, le cose vanno così perché semplicemente vanno così. La malavita non è una scelta agli occhi dei protagonisti, è l’unica strada per una vita sensata. Ma non per questo dobbiamo accettare quel tipo di etica. Confinati alla loro solitudine, a nessuno dei suoi personaggi viene mai concesso il privilegio di sapere dove ha sbagliato, tanto che quasi tutti i suoi film più noti finiscono con un ritorno allo stato iniziale. E non se la passano neanche male! Asso in Casinò torna a scommettere, Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street insegna alle nuove generazioni l’arte della truffa, Henry Hill in Goodfellas arriva persino a schifare la sua nuova vita sotto scorta, che pure gli ha garantito una via d’uscita. E la lista potrebbe continuare.


Traendo le conclusioni delle vicende tragiche tra espressioni sorprese e risate soffocate del pubblico del teatro, il regista concede il privilegio più grande al personaggio che più lo merita. Infine, è Scorsese stesso a dirci che si può scegliere una vita migliore: ci omaggia della sua presenza sullo schermo come a dirci che è lui il giudice cui spetta l’ultima parola. Come Mollie, attende prima di giudicare ma non risparmia i colpevoli. In questo senso Killers of the Flower Moon segna un punto di non ritorno nella sua filmografia: Scorsese sceglie di raccontare la storia di Ernest, un inetto che per una volta non può fare a meno di sentirsi almeno un poco responsabile di ciò che combinato e che ne paga seriamente le conseguenze. Il richiamo alla scena iniziale, questa volta, è la lucida speranza di un mondo che può ancora migliorare, con gli Osage finalmente “puliti” dal petrolio, riuniti in una danza mistica che, nella ripresa dall’alto, assomiglia molto a un occhio.


Il cinema è giustizia.


Elia Rover



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