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Daniele Quadrio

2. La nascita di una nazione

Capitalisti e commercianti di vita, gangster, travolti dalla folgorazione per la promessa di un’opulenza facile da raggiungere nell’illegalità. Da Scorsese a Leone, i molti volti della violenza americana al cinema.


Persi tutti i benefici e ridotto a una comune nullità, Henry Hill, precedentemente ricco gangster newyorkese, esce da una casa anonima in un luogo sperduto degli Stati Uniti per raccogliere il pasto recapitato alla sua abitazione dai responsabili del progetto di protezione testimoni dell’Fbi; l’apice del fallimento sembra raggiunto, eppure qualcosa nell’inquadratura suggerisce un’interpretazione diversa.


La sequenza conclusiva di Goodfellas, di Martin Scorsese, rappresenta un caso particolarmente emblematico rispetto allo sguardo, e al trattamento che il regista italoamericano riserva a una categoria specifica di personaggi, molto presente nelle sue pellicole: i gangster. Una delle frasi rimaste celebri del regista riguarda proprio l’impossibilità per un individuo, se nato a Little Italy negli anni ’40, di assumere nella società un ruolo diverso dal prete o dal gangster. L’importanza di questo duopolio nella filmografia scorsesiana è evidente fin dagli esordi dell’autore di Taxi Driver, così come la fascinazione per le figure criminali, da lui messe in scena con l’aspetto di semi divinità laiche e intente a compiere rapine e omicidi. Henry Hill ha perso tutto, eppure agli occhi dello spettatore in lui nulla è mutato rispetto a quanto visto precedentemente, sia a livello fisico sia comportamentale, a testimonianza dell’indulgenza, oltre che del fascino, provato dal regista nei confronti del suo protagonista.


Il soddisfacimento di qualsiasi bisogno, a partire da quelli materiali, e forse esclusivamente questi ultimi, rappresenta la connotazione archetipica delle figure dei gangster nei film di Scorsese; la conquista di soldi, lusso e potere è descritta, con esattezza quasi documentaristica, fin nelle sue pieghe più crudeli, costruendo ciononostante una narrazione estremamente realistica. Proprio da questo punto di vista affiora il carattere più ambiguo dello sguardo del regista: di fronte alla violenza dei suoi protagonisti emerge parimenti la volontà di rappresentare gli atti commessi evidenziandone l’atrocità, ma allo stesso tempo anche una forma di fascinazione per figure che appaiono mitizzate, come quelle ammirate dal giovane Henry nell’incipit di Goodfellas. Viene alla mente la celebre frase di Brecht, secondo cui «solo la violenza può servire dove violenza regna», così come gli interrogativi sul rapporto tra l’esercizio della violenza di un individuo e il suo ambiente di provenienza, sebbene niente di tutto questo possa mettere in dubbio l’importanza, indiscutibile, di Scorsese nella storia del cinema e l’indubbia qualità delle sue pellicole.


È forse possibile analizzare anche l’ultima opera del regista, Killers of the flower moon, con la medesima lente per quanto riguarda l’attrazione del regista per uomini ambiziosi che sono riusciti a ottenere il potere: di fronte allo sterminio dei nativi americani, la macchina da presa si concentra per tutta la durata del film sugli episodi familiari dei due protagonisti, i cui ruoli rispetto alla vicenda si chiarificano già a partire dalla prima scena. Il contesto storico assume un peso quasi irrisorio nello sviluppo della trama, così come le dinamiche del genocidio dei nativi americani vengono mostrate allo spettatore attraverso delle analessi che intervallano i dialoghi dei mandanti degli omicidi e risultano costantemente subordinate alle azioni compiute da William Hale (Robert De Niro), un ricco imprenditore locale, e Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), suo nipote, tornato dalla guerra avido e senza scrupoli. Sono moltissimi i primi piani che mirano a enucleare il carattere e la risposta emotiva dei due protagonisti durante le quasi tre ore e mezza di durata della pellicola; questa scelta stilistica comporta però una progressiva mancanza di attenzione per la connotazione storica e sociale della narrazione che, fatta eccezione per le sequenze iniziali, finisce per diventare un aspetto quasi del tutto irrilevante agli occhi dello spettatore.


Capitalisti e commercianti di vita, visti come una forma prodromica dei gangster, al cinema generano sovente una fascinazione: la questione che risulta problematica riguarda la ricezione dello sguardo del regista e le sue implicazioni; i film di Scorsese, come quelli di altri registi (per esempio Francis Ford Coppola) cresciuti in quel mondo così magistralmente raccontato nelle loro pellicole, non possono che far sorgere, ad anni e chilometri di distanza, alcuni interrogativi rispetto all’aura che i personaggi acquistano in quest’ottica, travolti dalla folgorazione per la promessa di un’opulenza facile da raggiungere nell’illegalità. Di segno opposto a Goodfellas, o alThe Godfather, è sicuramente Once upon a time in America, in cui Sergio Leone tematizza, forse proprio perché del tutto estraneo a quel mondo, l’emigrazione e la marginalità sociale delle comunità formatesi a New York nei primi decenni del secolo scorso, e la conseguente fondazione dei primi nuclei di criminalità organizzata. La pluralità di approcci alla medesima materia narrata dimostra diverse possibilità di interrogazione su una questione che, per la natura stessa del medium cinematografico, non può che rimanere irrisolta. 


Daniele Quadrio


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