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Davide Russo

4. Dalla New Hollywood al nuovo cinema classico

Nell’era ormai infinita dei cinecomics, Scorsese sembra avvertire la mancanza di un cinema lontano, quella “macchina dei sogni” capace di emozionare semplicemente con la bellezza. Di qui un ritorno al buon cinema classico americano, in netto contrasto con gli inizi della New Hollywood.


Dopo circa un mese dalla sua distribuzione nelle sale, Killers of the Flower Moon raggiunge un incasso di 84 milioni di dollari a fronte di un budget di più di 200 milioni. Se da una parte i detrattori attribuiscono l’insuccesso alla durata del film (tre ore e mezza), dall’altra la critica e il pubblico che lo ha elogiato rivendica un cinema di gusto ormai raro, certamente diverso dal solito Scorsese ma ovviamente di grande qualità.


Quello che invece risulta interessante analizzare nell’evoluzione artistica del cineasta, al di là dei giudizi sull’opera e del mancato successo commerciale, è proprio la fase finale di questo brillante autore che negli anni ha contribuito a modificare l’immaginario collettivo di milioni di spettatori. Con questo ultimo lavoro, Scorsese sembra essere giunto ad un punto fondamentale della propria carriera che ne segna di fatto la maturità artistica, poiché decide di portare in scena un’altra grande epopea classica, genere che negli ultimi decenni sembra essere quasi totalmente scomparso dai cinema di tutto il mondo, specie da quelli americani.


Il ritorno al classico sembra un percorso impossibile se accostiamo l’ultima opera del regista ai suoi primi film che invece segnavano l’ingresso in una nuova era cinematografica: quella trasgressiva, violenta ed esplosiva ondata definita in seguito Nuova Hollywood. Durante gli anni 60’, il cinema americano subisce una crisi senza precedenti indotta dal drastico crollo degli spettatori in sala che si trovano più affini ad un nuovo e più comodo metodo di fruizione dell’intrattenimento: la televisione. Ma, proprio in questi anni, nuovi protagonisti del mezzo cinematografico si affacciano nel panorama artistico portando una visione del mondo molto lontana da quella canonica, che vigeva nelle produzioni delle grandi Major. Costruiscono, cioè, uncinema del reale che mostri più limpidamente gli strati della società americana a partire dal basso, guardando in faccia la solitudine, la prostituzione, le droghe, la condizione giovanile e femminile, il nuovo modo di pensare al sesso e al problema stesso della sua rappresentatività. Tutto questo ovviamente condito da un gusto e una conoscenza del mezzo per nulla banale ma anzi del tutto sperimentale e personale, vincendo dunque la grande sfida di riportare il pubblico di massa ariempire nuovamente le sale.


Scorsese s’inserisce perfettamente in questo assortito caleidoscopio artistico con un cinema che in un primo momento è dedito al “piccolo dramma”, ovvero che osserva con una lente ben stretta un mondo limitato e di bassa portata, in cui lo spettatore è chiamato a gettarsi a capofitto. Spesso è un terreno violento e sudicio, dove ombrosi personaggi subiscono un’analisi analitica della loro personalità (Mean Streets, Who's That Knocking at My Door, Taxi driver, Raging Bull) finendo per diventare un pretesto per raccontare le debolezze della società americana.


Acquisendo sempre più fama e prestigio, Scorsese all’apice della sua carriera artistica intuisce presto che il modello di storie che predilige è proprio quello attraverso cui, grazie al magnetismo di personaggi ben scritti e carismatici, si possa leggere e interpretare un preciso momento, una specifica componente della Storia e dei costumi di una nazione, se non addirittura dell’umanità intera. Questo avviene quando lo schema più classico e Vogleriano dell’arco narrativo incontra i temi e i bisogni del cinema di Scorsese. Proprio con film come Goodfellas, Casinò o The Last Temptation of Christ, il regista approda alla sua struttura definitiva, garantendosi un enorme successo di pubblico e critica. È una struttura tripartita per nulla innovativa, tanto semplice quanto efficace: ascesa, successo e caduta. Non dimentica però di sorprendere il pubblico con un cinema vivace, costruito soprattutto sui movimenti di macchina, carrelli e piani sequenza memorabiliche rendono le sue opere incredibilmente appaganti nell’apporto visivo e tecnico.


Ma è proprio con l’ultimo decennio che il regista intraprende un percorso di maturazione portato a compimento solo oggi con Killers of the Flower Moon. La struttura tripartita si trasforma una pellicola dopo l’altra in grandi epopee estratte dalla Storia, farcite di numerosi e assortiti personaggi, spesso meschini ma brillanti e quasi tutti interpretati da Leonardo Di Caprio. Ciò che cambia sempre è il tono, a seconda dell’obiettivo del racconto; dalla commedia nera barocca e sfavillante di The Wolf of Wall Street, al noir metropolitano di The Departed, dal ritratto crudo espietato delle prime comunità criminali in Gangs of New York, all’epopea elegante e matura di The Irishman. Scorsese nell’ultimo decennio diviene maestro nel costruire queste storie dal grande respiro narrativo, che ovviamente necessitano di una durata maggiore per poter incasellare alla perfezione tutti gli elementi utili al racconto. Proprio con la sua ultima opera assistiamo a questo magnifico coronamento della sua maturità artistica: Killers of the Flower Moon non rinuncia né a De Niro e neppure a Di Caprio, c’è sempre Scorsese dietro la macchina da presa, è sempre una piccola storia “ritagliata” dalla grande Storia quella che corre lungo tutto il film, eppure ciò che ne esce è molto diverso da ciò che il regista newyorchese ha finora firmato.


Nell’era ormai infinita dei cinecomics e dei supereroi che per più di due ore e mezza riempiono lo schermo di battute infantilistiche, scazzottate colorate e cliché hollywoodiani, Scorsese sembra avvertire la mancanza di un cinema lontano, quella “macchina dei sogni” tanto decantata in passato, capace di emozionare semplicemente con la bellezza di una storia guidata solo dai personaggi, dalle loro debolezze e dalle loro scelte. E il cuore dell’ultima opera del Maestro è proprio quel tentativo (riuscitissimo) di tornare al buon cinema classico americano, utilizzandouna durata simile (o addirittura superiore) ai “cinefumetti”, ma sfidando i ritmi di oggi, regalandoci lunghi campi e controcampi, inquadrature statiche ma dirette. Il film offre un taglio sulla realtà per nulla simile al cinema di Scorsese al quale siamo abituati, dove spesso l’omicidio diveniva spettacolo – qui, al contrario, ogni scena di violenza è mostrata con una freddezza disarmante, pulita e per nulla esaltante. Uno scarto oggi necessario per scrivere una nuova pagina di cinema e smarcarsi dunque dalla volgarizzazione del mezzo e del linguaggio in atto ad Hollywood negli ultimi tempi.


Ringraziando dunque Scorsese per il nuovo (vecchio?) corso intrapreso, aspettiamo con famelica ingordigia il nuovo film di Francis Ford Coppola, con la speranza di assistere ad un nuovo ed emozionante capolavoro.


Davide Russo



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