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Francesco Colaneri

Bisogna tentare di vivere!

L'arte può insegnare a farlo? Cosa farsene di un mondo perfetto se questo nega alla vita ciò che la rende preziosa? H. Miyazaki, nel suo ultimo film, Il ragazzo e l’airone, potrebbe essersi fatto questa domanda. 


Fecemi la divina potestate”: questa è la frase incisa all’entrata della vecchia torre in cui l’airone cinerino attende Mahito (e la vecchia Kiriko). L’allusione da parte di Miyazaki al Canto III dell’Inferno della Divina Commedia non può essere casuale: 

“​Per me si va ne la città dolente,Per me si va ne l'etterno dolore,Per me si va tra la perduta gente.Giustizia mosse il mio alto fattore:Fecemi la divina potestateLa somma sapienza e'l primo amoreDinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro.Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate.” 


Il ragazzo e l’airone è un’opera tutt’altro che facile da interpretare; forse perché non vuole avere un’unica interpretazione, nella mente del Maestro Miyazaki. È dunque giusto dire che la mia è solo una delle tante letture che è possibile fare sulla decisione del regista di scomodare l’Inferno dantesco. In teoria, le carte in regola per vedere un’analogia, almeno nel concept, tra il viaggio di Mahito (onirico o reale, chi lo sa) e Dante ci sono: dalla scritta all’ingresso, all’airone cinerino che, svolgendo il ruolo di psicopompo nella tradizione giapponese, potrebbe assomigliare a Virgilio, o ancora a Kiriko-Caronte, Himi-Beatrice, fino ad arrivare al Dio-prozio. Ma, se queste analogie reggono, che senso ha tutto ciò? Miyazaki vuole proporre un suo Inferno? Un suo Aldilà, dove la figura del prozio sarebbe equiparabile a Dio nella sua volontà di creare un ordine perfetto ed eternamente giusto?

Non penso sia esattamente così. La foresta simbolica del film è troppo estesa per essere ridotta a questo. In particolare, se si approfondisce la storia del prozio, si può approcciare il significato del viaggio di Mahito da un’altra prospettiva. Il prozio è descritto come un personaggio intelligentissimo, che all’improvviso avrebbe perso il senno per aver letto troppi libri. Quando ha scoperto la torre (che una tra le domestiche della tenuta di Natsuko afferma essere caduta dal cielo, secondo un’antica leggenda), vi ha visto qualcosa di speciale, tanto da costruirvi attorno un edificio, per poi ritirarsi e perdersi in essa. Nel suo viaggio, Mahito a poco a poco scopre il mondo che il prozio ha costruito “all’interno” della torre; i tratti principali che emergono da questo mondo sono ordine, gerarchia e stabilità, il cui simbolo maggiormente pregnante si può ritrovare nella pila di sassi posti in equilibrio gli uni sugli altri che ci viene mostrata al suo primo incontro con Mahito. Il prozio è dunque Dio, che Mahito-Dante incontra alla fine del suo viaggio, nel suo Paradiso, eternamente appagato di essere al suo cospetto? 


Non proprio. L’ordine costruito dal prozio ambisce alla perfezione, ma manifesta un’inesorabile instabilità. Il prozio viene mostrato stanco e provato da un compito che alla fine va oltre le sue possibilità: mantenere in piedi il suo mondo dal precario equilibrio. Del resto, i germi dell’imperfezione di questo mondo ci vengono mostrati da Miyazaki fin dall’inizio: l’Eden in cui il prozio risiede si trova in cima a un mondo che, per esistere, ha richiesto il sacrificio di molte vite, sia nel mondo “reale” (gli operai del cantiere costruito attorno alla torre), sia soprattutto nel mondo “ideale” (emblematica, a tal proposito, e potente, la storia del pellicano riguardo alla segregazione della sua stirpe, un tempo nobile, nella dimensione del mare maledetto). Proprio un suo prodotto, il re-dittatore dei parrocchetti, per la vana ambizione di sostituirsi al prozio in cima alla catena di comando, causerà il collasso definitivo di questo mondo, e la restituzione di tutti coloro che vi erano “imprigionati” alle loro vite nel mondo “reale”.  


Del resto, il prozio deve i suoi poteri a una misteriosa pietra che ha presumibilmente trovato in quel mondo. Egli non è un dio, ma soltanto un uomo con un sogno: quello di creare un ordine fuori dal tempo e dallo spazio, eterno, perfetto, senza guerre e senza sofferenza. Miyazaki ci mostra prima l’incrinamento di questo sogno, che lo porta a cercare un erede a cui passare il testimone (Mahito), e poi ci mostra come collassi su se stesso, dopo la decisione di Mahito di non occuparsi di questo mondo. La domanda che dev’essere centrale, allora, a questo punto è: perché Miyazaki mette in scena il fallimento di questo sogno? Se infatti pensiamo alla sua filmografia, viene difficile non notare il suo ardente desiderio di eliminare la guerra, di tutelare l’ambiente e l’innocenza di quei buoni (e pochi) sentimenti del genere umano, come l’amore e l’amicizia, in cui ha sempre mostrato di credere (nonostante il suo acclarato pessimismo antropologico). Mahito nasce e cresce in un Giappone piegato dalla guerra del Pacifico, durante la quale perde la madre. Il suo odio e la sua indifferenza verso quel mondo che gli ha tolto la madre sono chiari fin dall’inizio del film: perché tornare indietro? Perché non accettare la proposta del prozio?


E voi come vivrete?” (Kimi-tachi wa dō ikiru ka): questo è il nome del romanzo che ha ispirato il film di Miyazaki. Secondo me la domanda-chiave per capire il senso della decisione di Mahito è proprio questa. Il prozio ha scelto di vivere in funzione del suo sogno. Lungi dall’apparire un dio onnipotente, è un anziano solitario e trascurato che ha rinunciato a tutto per creare il suo mondo ideale. È difficile non vedere in questa figura Miyazaki stesso, almeno in parte, che si è isolato dal resto del mondo e dagli altri, rifugiandosi nella sua arte. Tuttavia questo sogno lo ha condotto a un modo di vivere che è una non-vita: una vita senza amore e senza amicizia, in cui gli altri sono ridotti a pedine del proprio volere. Io penso che Miyazaki sia consapevole di ciò, e che questa consapevolezza si rifletta in Mahito quando risponde al prozio, dopo aver ammesso di essersi auto-inflitto quella ferita alla testa (l’accettazione del segno della sua imperfezione), di voler tornare nel suo mondo, corrotto e malvagio, ma anche l’unico vero mondo in cui abbia senso vivere. In quel momento, Mahito ha accettato l’amore della sua nuova famiglia, con l’aiuto degli amici che ha incontrato lungo il percorso. In un certo senso, Miyazaki ha riconosciuto che questo è l’unica scelta di vita sensata, e mette la sua arte al servizio di questo ideale: per vivere davvero, bisogna convivere con le proprie cicatrici. La fine è emblematica: Mahito torna nel mondo “reale” con un sasso in tasca, proveniente da quella roccia che ha dato al prozio i suoi poteri, la sua “divina potestate”. Queso è il segno che arte e vita, perfezione e imperfezione, non possono stare separate. 


In conclusione, penso che Miyazaki abbia voluto trasmettere questo messaggio: l’arte può aprire squarci di irrealtà per fuggire da un mondo finito e crudele, può prendere il poco che c’è di buono nel nostro mondo ed innalzarlo a universale, eterno. Ma, in ultima analisi, l’arte non può essere un’alternativa alla vita, perché nasce per proteggerla e valorizzarla. Esattamente come il sogno non può essere una nuova realtà in cui fuggire, ma una realtà da cui tornare, senza tuttavia dimenticare ciò che si è sognato. Ritengo che Miyazaki abbia maturato la consapevolezza che il modo migliore di vivere sia questo, per tollerare un’esistenza in cui la sofferenza è inevitabile, ma anche l’amore lo è. L’arte può non essere ascetismo; può insegnare a stare nel mondo, può insegnare il valore concreto degli altri. Questa è la ragione per cui amo Il ragazzo e l’airone e il suo meraviglioso regista.

di Francesco Colaneri


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