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Irene Marcazzani

Attraversare la soglia dell’obliquo: il testamento di Miyazaki.

Cosa succede quando si sgretola la gerarchia ordinata vita-morte? Mahito, contaminando il suo vivere con l’esperienza obliqua della torre, incarna l’ultimo messaggio di Hayao Miyazaki: rendere evidente il fluire magmatico dell’esistenza avendo l’ardire di attraversarne la soglia. Ed è proprio tale esigenza a risvegliare il regista dalla pensione cristallizzante per dar forma invece ad un vero e proprio testamento d’animazione.



Sono passati due anni dalle vicende della torre. Mahito volge un ultimo sguardo alla sua camera, consapevole di essere atteso al piano inferiore dalla sua famiglia per tornare a Tokyo. Panoramica finale, poi solo titoli di coda. Le luci si accendono e il pubblico comincia ad alzarsi. Allora ti giri e, in automatico, la persona accanto ti chiede: “Allora, piaciuto?”.

Un momento di pausa per riflettere, ma la domanda rimane senza risposta.

 

È il 2013 e Hayao Miyazaki saluta il mondo in conferenza stampa: non produrra più film d’animazione. Per lui è arrivato il momento della pensione. Studio Ghibli, l’istituzione creata attorno alla sua figura e stratificatasi nel corso degli anni, viene svuotata e ogni suo dipendente libera la propria postazione. Ebbene, dopo nemmeno un anno di fermo, il regista si trova a spolverare il suo tavolo da disegno per dar vita al cortometraggio Il bruco Boro (Kemushi no Boro). Un segnale, questo, forte e chiaro: lo stop non era definitivo. Arriva così il 2016 e Miyazaki inizia a lavorare alle animazioni del suo prossimo “ultimo” film, spinto dall’irrequietudine di dover dire ancora qualcosa.

Arriva nelle sale giapponesi nel 2023 con il titolo originale E voi come vivrete? (Kimi-tachi wa Dō Ikiru ka) ma viene distribuito in Italia con il nome Il ragazzo e l’airone. Nel complesso, la produzione dell'opera durò circa sette anni, due e mezzo dei quali interamente dedicati alle attività di pre-produzione. Comprensibile dunque la trepidante attesa del pubblico.



Il film rappresenta in tutto e per tutto il testamento del suo regista e forse è proprio questo il motivo per cui si fatica a rispondere con leggerezza alla domanda: “ti è piaciuto?”. Di fatto un lascito testamentario non ha l’esigenza di compiacere nessuno e nemmeno la necessità di essere bello (o brutto), anzi, esiste esclusivamente per comunicare le volontà del suo autore. Che piacciano o non piacciano. Chi guarda la vicenda del giovane Mahito vi assiste in qualità di testimone: la morte, tratteggiata in tutte le sue sfacettature nel corso dell’intera narrazione (dall’incendio iniziale allo sfondamento del cancello inoltrepassabile, dal viaggio interrotto dei wara-wara al regime totalitario dei parrocchetti), viene letta da chiunque abbia la pazienza di stare seduto a guardare; ecco che i riferimenti e le citazioni, ben intrecciati nella loro ricchezza, costruiscono con maestria un mondo obliquo dove ogni gerarchia viene rovesciata.

La coppia concettuale vita e morte è prima protagonista di tutta la vicenda e nello svolgimento del testamento animato è ravvisabile una vera e propria discesa nell’aldilà per riconquistare la potenza dell’aldiqua[1] .  I due livelli però non figurano linearmente: nell’esporli sullo schermo ogni spettatore ne respira l’alternanza grazie al ritmo sia di taglio che di costanza, di separazione nel legame e di unione nella contrarietà. In altri termini, così come il respiro si compone di una continuità discontinua data da momenti di inspirazione e di espirazione, allo stesso modo vivere e morire non si danno in un prima e un dopo ma abitano l’uno la torre dell’altro .

La non linearità dei poli vita-morte trova il suo culmine nella scena della sala parto: Mahito ne oltrepassa infatti la soglia per giungere a salvare Natsuko dalle fauci ingorde della torre, profanando così l’unico ambiente di vita in quel mondo di morte. Qui la vorticosità emotiva, animata magistralmente da Studio Ghibli attraverso il turbinìo aggressivo della carta, si distende quando il protagonista si riferisce alla gestante chiamandola “mamma”, quella che possiamo considerare la parola della vita. Madre è a tutti gli effetti la parola dell’obliquo: prima soglia da oltrepassare, la nascita di un nuovo essere è di fatto lo sfondamento fisico e simbolico per eccellenza; la catabasi di Mahito allora si trasforma nel tentativo di riconquista di tale soglia.

 



Tradizionalmente l’esterno e l’interno di un locale vengono resi in giapponese attraverso i rispettivi omote (表, “diritto, fuori”) e ura (裏, “rovescio, dentro”) e nel corso di ogni passaggio tra un ambiente e l’altro è sempre richiesta una particolare disposizione comportamentale: come ogni soglia implica una trasformazione dell’atteggiamento e della qualità dell’attenzione così Mahito, nell’attraversare la soglia della sala parto, deve adottare una determinata disposizione etica, pena l’impossibilità di varcare il passaggio. Allora la sua consapevolezza interiore si accompagna, con l’aiuto di Himi, da un preciso atteggiamento del corpo, chiamato in definitiva a ricomporsi e a non compiere gesti in modo automatico e distratto. Un corpo che, varcata la soglia, riconosce la polarità vita-morte verbalizzandone il confine: “mamma”.

Non c’è ordine tra verticalità ed orizzontalità, ovvero tra le forme di legno con cui il prozio tenta di formare invano un mondo giusto, perfetto, ma solo fluire obliquo, annodato della realtà: l’intreccio dinamico di Miyazaki infatti non si scioglie in alcun modo, nemmeno ponendo Dio al di sopra, Uomo al centro e Natura al di sotto. Allora le forme crollano e la torre non solo si distrugge ma si configura come mai più ricostruibile.

È questo l’obiettivo che l’autore affida con premura ad ogni sua produzione e che gli impedisce di concedersi la pensione definitiva: distruggere ogni cristallizzazione gerarchica di un mondo che invece è attraversato da oscillazioni dinamiche, da equilibri obliqui, da polarità in continua discontinuità. Ogni personaggio dell’universo di Miyazaki è quindi chiamato a reinventarsi incessantemente, a trasfomarsi, rinnovandosi e contaminandosi proprio per restare vivo. Ed è così che ognuno di loro, da Lupin a Ponyo, da Kiki a Chihiro, da Sophie ad Ashitaka, da Nausicaä a Mahito chiede insistente dallo schermo “e tu quali soglie attraverserai vivendo?”.


Irene Marcazzani


[1] Esplicita è la connessione con il viaggio dantesco proprio a partire dall’entrata della torre alla cui sommità si legge “Fecemi la divina potestate”, formula che compare all’interno del Canto III dell’Inferno. I richiami alla Divina Commedia sono rintracciabili anche in un possibile parallelo tra la figura dell’airone e Virgilio, ma anche la connessione tra Kiriko e Caronte o anche il ponte tra Himi e Beatrice.

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