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Viola Battaglini

Almeno questa volta, non chiamiamolo femminismo

Poor Things ha messo in difficoltà tutti, anche chi lo nega. Veniamoci incontro e proviamo, per una volta, a non scavare troppo a fondo. Proviamo, per una volta, ad assecondare la magia del cinema.




Sono passati 141 minuti e siamo ai titoli di coda. Ora è giunto il momento di trarre delle conclusioni sulle vicende appena viste in scena. Non è affatto facile, dovendo fare lo slalom tra le grandi verità che tutti sembrano avere al riguardo. Ormai un film non può essere mediocre; un film è un capolavoro o cibo per cani, e coloro che non hanno un’opinione netta possono anche stare zitti. Il problema è che questo l’hanno visto tutti, anche chi al cinema non ci è mai andato, anche chi ci va solo a vedere i cinepanettoni una volta l’anno. Tutti grandi fruitori dei film del regista, che è un amico, un fratello, un padre. Fare l’intellettuale sui grandi incassi fa molta tendenza, si sa, ma la cosa peggiore di tutte è un’altra: questo film l’hanno capito tutti perfettamente. Poi però se ne parla come di un’opera strana, ma geniale, un po’ splatter e un po’ pornografica, ma anche perfettamente lineare, che mostra una Emma Stone senza pudicizia, bellissima e bruttissima, ma anche nella sua migliore interpretazione, ma anche nella sua peggiore. Abbiamo visto tutti un film diverso, oppure semplicemente non è così facile categorizzare l’arte.


Voglio stare al gioco però, quindi trovo una posizione anch’io e la mantengo con unghie e denti: Poor Things non è un film femminista. Non è forse riduttivo parlare di genere, di fronte al modo in cui viene affrontato il tema dell’emancipazione dell’essere umano attraverso esperienza e cultura? Ovviamente un tema non contraddice l’altro, ma è anche semplicistica una visione che esclude una così consistente parte di significato. Mentre parlo con me stessa uscita dal cinema mi sento molto intelligente e mi convinco di aver scavalcato l’opinione dei molti raggiungendo il vero messaggio del regista. Questa volta però non ho avuto fortuna e ho sbagliato.  Solo in seguito, un’intervista di Lanthimos in cui il regista assecondava questa chiave di lettura mi ha fatto capire che forse così intelligente non lo sono. A questo punto, non resta che un astuto gioco di retorica per uscire da questa spiacevole situazione e mantenere il ruolo da intellettuale che solo l’arroganza può darmi.


Poor Things è un film sicuramente ricco di significati. Uno tra tanti è quello del distacco della creatura dal creatore. La protagonista Bella Baxter “nasce” in un ambiente protetto, e saranno le influenze esterne a creare la persona che diventerà. Un percorso non dissimile potrebbe dirsi quello che compie l’opera quando lascia l’artista per darsi al suo pubblico. Per cui, caro Yorgos, volevo dirti che hai perso il controllo sul tuo figliolo, che nel suo viaggio è maturato, arrivando a me, e spero anche ad altri, così: non femminista.


O meglio, non solo. Dire che questo è un film femminista è come dire che Barbie narra le avventure della bambola della Mattel, o che i film di Charlie Chaplin sono puramente comici.  E’ bene riflettere sul termine “emancipazione”, che si riferisce a quel percorso necessario da compiere per accedere ad uno stato di autonomia; la conseguenza è la fine della sottomissione all’autorità. A parer mio è proprio di questo che stiamo parlando, prescindendo dal genere.

Da principio la nostra protagonista non è una donna: si tratta di un individuo, un essere, una persona. Un concetto sicuramente complicato da spiegare ai pochi- anzi pochissimi- temerari che decideranno di sfogliare questi articoli senza essere ancora andati al cinema. Non prendiamoci in giro, ovviamente la scelta di una protagonista femminile è un chiaro indizio di intenti, ma spingiamoci oltre. Sarebbe stato impossibile veicolare altrettanti significati con un protagonista uomo? A me piace pensare di no. Tant’è che Godwin, unico genitore di Bella ironicamente chiamato “God”, parla in più circostanze della sua infanzia. Il modo in cui racconta le vessazioni subite dal padre smanioso di utilizzarlo come cavia da esperimento rivela i traumi che l’hanno portato ad essere ciò che appare sullo schermo. A Godwin non è stato riconosciuto quel libero arbitrio che è lui stesso ad ammettere che la figlia possiede. Allora, forse anche in questo scienziato tanto razionale è avvenuta una presa di coscienza, e un superamento del rigido ruolo di ricercatore che avrebbe dovuto ricoprire partendo dagli esempi che ha avuto. Dunque, si potrebbe parlare dell’emancipazione del creatore, che ammette di non avere diritti di possesso sulla creatura. “È l’obiettivo di tutti fare progressi, crescere.”: sono queste le parole della stessa protagonista, forse frutto dell’estremo razionalismo che ha caratterizzato la sua educazione, ma anche portatrici di un forte messaggio di speranza.


Tutti questi interessanti temi vengono poi conditi con ambientazioni oniriche e dialoghi che sfiorano l’assurdo, il tutto all’interno di situazioni a dir poco disturbanti. Si tratta di un film che dice tutto e non dice niente, una tela talmente piena di colori da tornare ad essere bianca. Non è dunque folle affermare che la pellicola porti non un solo significato, ma piuttosto ne possegga molti, alcuni anche in contraddizione tra loro.

Ho sentito molti parlare di come, all’interno della storia, il sesso sia stato la chiave di svolta per la sorte della giovane. Le lunghe sedute di “furiosi sobbalzi” a volte risultano quasi disturbanti nel loro realismo che non lascia troppo spazio alla poesia, e sono talmente esplicite da annullare totalmente la carica erotica. Esse sono certamente necessarie alla narrazione, ma sono anche solo una piccola parte di quella scoperta del mondo che osserviamo compiere dalla talentuosa Emma Stone. Ad aggiungersi a questa rivelazione vi è quella di cibo, lettura, amicizie e comportamenti consoni ne “la buona società”, ma anche l’esplorazione dell’altro genere nella sua complessità, non solo dal punto di vista dell’impulso. Una critica che allora si potrebbe fare è quella della centralità che giocherebbe il sesso nell’affermazione della donna in quanto persona. La libertà che Bella raggiunge invero non è quella di chi utilizza il potere del proprio corpo, o semplicemente non ha un padrone; si tratta di consapevolezza, di acquisizione di mezzi culturali che permettono ad una persona di comprendere la differenza tra bene e male, e l’incapacità, a volte, di collocarsi in una delle due fazioni. Per questo motivo, un momento di grande importanza in questo climax di esperienze, talvolta crude, talvolta di grande tenerezza, è quello in cui la ragazza viene a conoscenza delle brutture che esistono al mondo. È a questo punto che avviene la perdita di quella inconsapevolezza che la rende sì più felice, ma anche incompleta e schiava di chi vuole mostrarle solo una parte di realtà; è qui che ha luogo la crescita e lo sviluppo di un pensiero critico. Una conseguenza, tutt’altro che scontata però, è che questa bambina non perda la speranza entrando nell’età adulta.


Passiamo ora al personaggio di Duncan Wedderburn: è proprio lui ad incoraggiare Bella a viaggiare, ma è anche colui che le impedisce di avere troppe libertà, quando comprende di non poterla controllare. I due incarnano ideali in netta contrapposizione: da un lato il tentativo di prevalere, sfruttando tutto ciò di cui si può godere prescindendo dagli altri, dall’altro la volontà di capire i meccanismi di potere per riuscire a migliorare sé stessi e l’umanità intera.


Questo è un film per cui non basta una sola visione, è necessario guardarlo più volte e da più angolazioni per comprenderne il vero potenziale estetico e, ovviamente i tanti messaggi, chiari o nascosti che siano. Ciò che appare agli occhi dello spettatore è un colossale amplesso tra surrealismo alla Dalì e un grottesco talmente esplicito da far venire i brividi, ma quel che è certo è che nulla è lasciato al caso. Il passaggio da immagini che accarezzano lo sguardo a pugni negli occhi è improvviso e può creare non poco disagio. D’altra parte, si tratta di un marchio di fabbrica delle opere del regista, che può non essere apprezzato, ma di certo non si può dire essere noioso se riesce a far parlare così tanto di sé. Chi lo sa se tutta questa retorica è servita a qualcosa, ma quel che importa veramente è che un film che lascia dei dubbi, è un film che merita di essere guardato. Quindi lasciamo da parte un po’ di saccenza dalle sale e torniamo a cercare l’emozione oltre i significati, che alla fine neanche Lanthimos ha veramente capito cos’ha creato.


Viola Battaglini



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