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The big Lebowski e la seconda topica freudiana

“The man in me will hide sometimes to keep from bein' seen

But that's just because he doesn't wanna turn into some machine”

The man in me, Bob Dylan



Innanzitutto, perché il bowling?


Due cose sono certe nei film dei Coen: 1) prima o poi comparirà un elemento scenico di una certa rilevanza che avrà forma circolare o che assumerà un movimento circolare; 2) c’è sempre almeno un aspetto della trama che finisce per rivelarsi diverso da come appare inizialmente. Per quanto riguarda la questione della circolarità all’inizio del film siamo accompagnati in scena da un tumbleweed, quegli ammassi di rami e polvere che rotolano silenziosi nei grandi spazi aperti e che nell’immaginario collettivo richiamano i vecchi film western. Al posto dei pistoleri e dei banditi fuorilegge però troviamo The Dude Lebowski in ciabatte e accappatoio intento ad acquistare un cartone di latte in una corsia del supermercato. Ecco l’eroe di cui abbiamo bisogno al sorgere del XXI secolo! Senza machismo e senza disciplina, The Dude è il modello morale che come una palla da bowling scivola sulla vita cercando di non dare peso agli improbabili imprevisti che si susseguono per tutto il film. 

 

Tutta la vicenda infatti è messa in moto a partire dalla richiesta di risarcimento per un tappeto che “dava davvero un tono all’ambiente”, il che ci porta direttamente alla seconda costante della filmografia dei Coen: The big Lebowski è infine la storia di uno scambio di identità che finisce per rivelarsi corretto. Il “Grande” Lebowski non è certo il milionario che crea un complesso intrigo per liberarsi della moglie-trofeo; abituato a leggere la vita in termini di successo o insuccesso, il ricco filantropo non riesce ad accedere alla visione del mondo di The Dude. L’inganno viene svelato man mano che il film prosegue, mentre scopriamo che sua moglie non è mai stata rapita, che Lebowski non la vuole indietro, e che i soldi del riscatto non sono mai esistiti. Il “Grande” Lebowski è in realtà The Dude: un detective improvvisato che ride del fatto di essersi trovato invischiato in complicate storie di denaro e riscatto, è un eroe perché vive alla giornata, sopravvivendo a mais tostato e White Russian.



In un articolo comparso nel dicembre 2017 su Philosophy Now (ma ce ne sarebbero tanti altri) Matt Qvortrup, facendo leva sulla formazione filosofica di Ethan Coen sottolinea la natura stoica del personaggio — “Like a good Stoic, the Dude is above all calm in the face of adversity” e ancora “what constitutes contentment for the Dude is summed up in the words ‘bowl, drive around, and the occasional acid flashback’ – in other words to live in the present and to be content with his lot”.

 

Vorrei proporre qui un’ulteriore linea interpretativa che si sovrappone alla tradizionale lettura stoica del film e che potremmo definire post-freudiana. I tre personaggi principali infatti sembrano una riproposizione in chiave post-moderna dei tre luoghi psichici della seconda topica (Es, Io, Super-io). 


Andiamo con ordine. Il personaggio di Goodman rappresenta un rigido, insensato “super-io” costretto a un codice morale del quale non riesce a rendere conto: del tutto chiuso nella sua idea del mondo, tra i racconti del Vietnam e il culto ebraico ereditato dalla fine del primo matrimonio, Walter è un fascio di nervi tutto ordine e disciplina. È la parodia di una mentalità bellicista da reduce di guerra che non ha più senso di esistere nella Los Angeles di inizio anni 90’ (o forse non ne ha mai avuta). Steve Buscemi/Donnie assume il ruolo dello spaesato “Io” fra i due elementi più eccentrici: posto sempre in secondo piano, narrativamente e nella messinscena, costretto a chiedere di volta in volta il resoconto delle strampalate conversazioni fra i due amici. Nel tentativo di raccapezzarsi tra un tiro a bowling e il successivo, rimane immancabilmente inascoltato, o peggio zittito. E infine c’è lui: The Dude, un pacifico Es che ricerca una liberazione che non è esplosione vitalica e potenzialmente dannosa come nel paradigma originario, ma quieta superficialità — non più assenza di costrizioni, ma assenza di inconvenienti. Un’incarnazione della topica che è appunto agli antipodi della gravosità del suo autore, svuotata della sua componente patologizzante, ne è a un tempo esemplificazione e scherno. È vita che ama la vita in quanto condotta dal principio di piacere, ma senza l’esplosività pericolosa del paradigma originario; vita che ama la vita in quanto insensatezza, ma senza mai cadere nella disperazione nichilista (“He doesn’t care about anything, he’s a nihilist” “Ah, that must be exhausting”). Ecco la palla da bowling che procede a movimenti concentrici verso la fine della pista, ma senza domandarsi dove sta l’inizio.



Tanto per richiamare un altro tema caro a Freud, all’interno del film sono presenti due sequenze in cui ci immergiamo nei sogni di The Dude: nella parte finale del primo di questi due sogni troviamo The Dude rimpicciolito sopra la pista, completamente spaesato e tremendamente spaventato mentre vede un’enorme palla da bowling avvicinarsi a lui, che sembra inglobarlo. La scena si conclude con una fantastica soggettiva dall’interno della palla da bowling. In uno strano gioco di inversioni e contraddizioni potremmo dire che il movimento orizzontale disegnato dal rotolare della palla sulla pista si debba interpretare come il pensiero definitivo per cogliere il senso della vita: in una nuova equazione simbolica l’orizzontalità è la nuova verticalità, la nuova profondità. 

 

Proseguendo con questa lettura è interessante notare come il film si concluda con la morte di Donnie —  il povero “Io” fra i due tiranni. Una morte per nulla prevedibile, totalmente gratuita ai fini della trama, forse annunciata appena un momento prima del suo sopraggiungere, quando Donnie osserva stranito l’ultimo birillo rimasto in piedi dopo un mancato strike. The Dude e Walter si recano all’agenzia funebre per dare un degno saluto all’amico. I due si presentano e per un attimo Jeffrey sembra voler ribadire per l’ennesima volta che non vuole essere chiamato Jeffrey Lebowski, ma preferisce “the Dude”, or "his Dudeness, Duder, or El Duderino”. Prima di parlare però tentenna, così l’agente lo guarda incuriosito, ma The Dude, incrociando le braccia e ritraendosi sulla sedia, risponde che non è importante. 



E davvero perde d’importanza lo sforzo di distinguersi in quanto individualità davanti all’insensatezza di questa morte, davanti alla sensazione di insensatezza prodotta da ogni morte — atto finale che riconsegna la persona al nulla che era. In questo senso, la scena in cui Walter sparge senza accorgersene le ceneri di Donnie sulla faccia imperturbabile di Dude, non è forse l’ennesima oscillazione dei Coen fra il serio e il faceto? Esiste forse una rielaborazione migliore del monito biblico “ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai”? 

All’avvicinarsi del nuovo millennio, l’ “Io” si lascia definitivamente alle spalle un mondo deprivato di senso in cui non ci resta che rotolare. E allora tanto vale tornare a giocare a bowling.


Di Elia Rover



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