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Il buono, il vecchio e il cattivo

Nel tentativo di non ricavare delle banalità da questa storia, ben più che interessante, cercherò di mostrare quanto parli di noi e del nostro presente, della perdita di riferimenti che pervade l’epoca contemporanea e di come oltre l’orizzonte di “buono” e “cattivo” non sorga niente di nuovo sul fronte occidentale.



Se si cerca di dare una morale a una storia, non potrà che essere banale. È la storia a essere interessante, non le banalità che se ne possono ricavare”.

Joel & Ethan Coen


Texas, anni 80. La voce desolata dello sceriffo Bell introduce un altrettanto desolante paesaggio semi desertico, crepuscolare, ricordando con nostalgia: “Mi è sempre piaciuto sentir parlare di quelli dei vecchi tempi […] Uno non può fare a meno di paragonarsi a loro, di chiedersi come avrebbero fatto loro al giorno d’oggi”. Al giorno d’oggi quando, continua, gli capita di mandare a morire un quattordicenne che ammazza una ragazza per un crimine passionale, in cui "la passione non c’entrava niente", perché da quando ne ha memoria quel ragazzo avrebbe sempre voluto ammazzare qualcuno. Con Non è un paese per vecchi quello che i fratelli Coen portano magistralmente sullo schermo già dai primi minuti, è il ritratto di un’America di confine che, pur non stando sotto i riflettori, racconta con un minimalismo spiazzante lo spirito di una nazione. Tuttavia, la narrazione non apre affatto a una critica sediziosa o autocommiserata della situazione con cui ci confronta ma, al contrario, sdrammatizza quella stessa aridità che porta in scena, facendone dell’umorismo per iscriversi a pieno titolo nello stile cinematografico tipico dei Coen.



Il personaggio di Chigurh ne è il primo esempio, serial killer sociopatico ma con un’aria da cantante mariachi, che il suo rivale Moss ad un certo punto chiama ironicamente “Sugar”. Questa sovrapponibilità altro non è che la conseguenza di un disorientamento causato dallo svuotamento dei “vecchi” valori incarnati dalla figura dello sceriffo Bell, ormai alla soglia del pensionamento, disilluso e incapace per sua stessa ammissione di lottare contro qualcosa che non capisce, che non rientra più in un orizzonte di senso noto. Perché “con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa”. Ed è difficile capire qualcosa anche per noi che assistiamo allo svolgersi di una trama che inizialmente sembra introdurci fin troppo agilmente in un’atmosfera narrativa tra il noir e il Western, di cui pensiamo di aver colto dall’inizio l’andamento e di poter prevedere l’esito, cullati dai topoi del buon cowboy, del cattivo contro cui deve battersi e dello sterminato West. Invece, nell’opera di decostruzione radicale che il film porta avanti su tutti i fronti, l’umile e buon cowboy muore in una scena che non viene nemmeno mostrata e il cattivo alla fine la fa franca. Ci chiediamo allora dove vogliano portarci i Coen dopo averci fatto girare in questo labirinto di intrecci e inseguimenti, in una sorta di caccia alla volpe.



La risposta è che non arriviamo da nessuna parte se non ad ammettere che i riferimenti li avevamo persi già prima di vedere il film, che non cerca e non vuole in nessun modo metterci davanti alla morale della storia. A fare da snodo tematico alla vicenda quindi, perno saldo di tutta la narrazione e del susseguirsi dei caotici movimenti che la caratterizzano, è il nulla. O meglio, l’annichilimento messo in atto da una società capitalista e postmoderna nei confronti del valore, del senso e della Storia. A esemplificare questa dinamica che si svolge nel rapporto dialettico fra la perdita dei riferimenti e una nostalgica e sconsolata ricerca dei “vecchi” valori c’è la coppia Chigurh/Bell, incarnazioni rispettivamente del Male e della Morale. Il primo nei panni di una morte giustiziera che risponde solo alla legge del caso e ha deposto la scure per imbracciare una più moderna bombola di ossigeno. Il secondo come l’ultimo tutore della legge che riveste il valore di un puro feticcio in una società ormai senza più regole da far rispettare. Ma Chigurh non è solo uno psicopatico, viene anche descritto come un uomo dai sani seppur incomprensibili principi, che non uccide per denaro o per necessità, ma sembra farlo piuttosto affidandosi al caso come dichiara in uno degli scambi più interessanti del film quando, posto davanti alla giustificazione delle proprie azioni, afferma:


Carla Jean: -Non hai motivo di farmi del male

Chigurh: -No, ma ho dato la mia parola […]

C.J.: -Non sei obbligato a farlo

C: -Dicono tutti la stessa cosa. Allora tira testa o croce, questo è il massimo che posso fare. Scegli

C.J.: -No io non voglio scegliere. Non è la moneta che decide, a decidere sei tu

C: -Io e la moneta siamo arrivati allo stesso punto



Dialogo che sembra tratto da un racconto gidiano e allo stesso tempo ricorda molto anche la gratuità e l’ordinarietà con cui i Coen travestono il male in Blood simple o in Barton Fink. L’appello al libero arbitrio di Carla Jean poco può contro un male ingiustificato, fin troppo banale per sembrare reale, eppure che ricalca tragicamente la realtà che si consuma ogni giorno più o meno lontana dai nostri occhi che decidono di spostare lo sguardo dov’è più comodo. In effetti basta ben poco per passare la frontiera statunitense quando sei un veterano del Vietnam, anche se ti presenti scalzo e indossi solo un camice d’ospedale: come succede a Llewelyn Moss che, reduce da uno dei sanguinosi inseguimenti con Chigurh, rientra in Texas dal confine messicano. E a guardare bene allora, è ingenuo chiedersi attoniti da dove provenga la figura di Chigurh attorno a cui aleggia un’aura quasi soprannaturale (tant’è che viene più volte paragonato ad un fantasma), in un Paese che glorifica la violenza e che ha fatto dell’imposizione della forza un motivo di orgoglio. D’altra parte, è sempre tramite il controverso personaggio di Chigurh, che apostrofa provocatoriamente una delle sue vittime prima di ucciderla, che ci chiediamo a cosa servano le regole che abbiamo seguito fino a ora, dato che seguirle ci ha portato a questo punto. A fare da contraltare a questo sfacelo, in un tentativo votato a fallire, c’è la legge morale, nelle sembianze più che azzeccate di un vecchio sceriffo stanco. Bell è presentato come il doppio di Chigurh: è interessante notare come entrambi appaiano in sequenze successive ma identiche, rappresentati nel riflesso dello schermo della stessa televisione, come a sottolineare una specularità che li tiene insieme e allo tempo stesso li confina ai poli opposti. Nel mezzo sembra esserci colui con cui forse più facilmente ci identifichiamo, Llewelyn Moss, a metà fra il “vecchio” e il “cattivo”, un “buono” che si mette per caso sulle tracce sbagliate dopo aver trovato una valigetta piena di dollari, che si rivela essere la sua condanna quando decide di tornare sul luogo dello scambio fra narcotrafficanti finito male per portare dell’acqua all’unico sopravvissuto facendosi così scoprire. Perché, in fin dei conti, non è importante se stai dalla parte del bene o del male se i due rivestono solo un valore immaginario oltre al quale c’è un’inquietante nulla cosmico (come suggerisce la trama) che, ancora una volta, si prende gioco dello spettatore contravvenendo alle sue aspettative. Perché, ci dice Bell, questo paese è duro e pensare di contrastarlo come cerca di fare Moss mettendosi contro il destino è semplice vanità.



In questo stato di abbandono a cui i Coen ci consegnano, nella volontà di non fare della morale dell’assenza di morale, sembra quasi che i due si divertano a giocare a un gioco macabro, a lasciarci inermi davanti a uno stato di cose da cui non c’è ritorno. Emblematica in questo senso la sequenza che chiude il film. Davanti a un caffè al risveglio mattutino, infatti, lo sceriffo racconta alla moglie di aver fatto dei sogni in cui c’era suo padre. Nel primo questo gli regalava dei soldi che lui perdeva. Nel secondo attraversava un passo in mezzo alla neve con il padre avvolto da una coperta e con la testa bassa. Nel seguirlo, racconta Bell, sapeva che il padre stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte al buio e che quando lui ci sarebbe arrivato l’avrebbe trovato lì. Tuttavia, proprio nel momento in cui gli eventi sembrano dischiudere un varco luminoso nella notte metaforica in cui lo sceriffo si addentra, quest’ultimo conclude: “Poi mi sono svegliato”. Sentenza che possiamo interpretare come un vero e proprio epitaffio di un altro sogno, quello americano, il cui risveglio lascia sul volto di Bell, come sul nostro d’altronde, uno sguardo vacuo e amareggiato di chi scopre che ciò in cui aveva riposto tutte le proprie speranze non esiste.


Di Chiara Serpani


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