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Emma Marinoni

Che cosa aspettiamo da Cannes?

O meglio, come dare un senso al mio stare su Twitter/X per dieci giorni consecutivi.



In questi ultimi anni, Cannes si sta dimostrando un’influenza sempre più forte sull’Awards Season rispetto a tutti gli altri festival di fascia A – basti guardare dove i vincitori della Palme d’Or e del Grand Prix dell’anno scorso (rispettivamente Anatomia di una caduta e La zona di interesse) si trovavano agli Oscar di quest’anno. Essendo da sempre un festival con un forte potere mediatico, tra i titoli del concorso spesso troviamo film più adatti al grande pubblico rispetto che a Locarno o alla Berlinale, festival egualmente grandi ma più focalizzati sul “cinema del futuro”.


Non a caso quest’anno alla Croisette era tempo di grandi ritorni: dalla Palme d’Or onoraria a George Lucas e Meryl Streep, ai nuovi titoli di registi più che affermati come Cronenberg e Schrader. Ma su tutti, il ritorno più atteso era ovviamente quello di Francis Ford Coppola: Megalopolis, progetto titanico ten-years-in-the-making, quasi completamente autofinanziato da Coppola stesso, era stato considerato “indistribuibile” dopo qualche anteprima in America. L’aspettativa era così alta che persino la tanto tipica standing ovation del pubblico di Cannes si è svolta, in questo caso, all’inizio della proiezione, con l’ingresso di Coppola e del cast nella sala.



Le reazioni sono state alquanto divisive. Parlando della rating curve del film su Letterboxd, George Fenwick fa notare come essa rifletta ironicamente i grattacieli di ‘New Rome’, la futuristica versione di New York immaginata da Coppola. Definito un capolavoro da alcuni, un disastro epocale da altri, fino ad arrivare al giudizio “so bad it’s good” (entrando nella tradizione composta da film come Southland Tales di Richard Kerry o Showgirls di Paul Verhoeven), una cosa sola è certa: sicuramente si tratta di un’esperienza unica, con tanto di esorbitante rottura della quarta parete (si vocifera che a ogni proiezione fosse presente un attore in carne e ossa per fare domande durante una scena al personaggio di Adam Driver).



Non si tratta di grandi ritorni solo per registi: con The Substance Demi Moore è tornata a Cannes ventisette anni dopo The Fifth Element. Secondo lungometraggio della regista francese Coralie Fargeat, The Substance è un film gore sugli standard di bellezza (e di età) impossibili del mondo di Hollywood. Anche qui le reazioni sono state parecchio divisive, ma in questo caso con una variabile di genere ben definita: la maggior parte degli uomini l’ha definito un capolavoro dell’horror moderno, puntuale e attuale, mentre la maggior parte delle donne (che comunque rimangono la minoranza in questo ambito lavorativo) l’ha trovato completamente privo di profondità critica, un film che non fa niente di più che mostrare ciò che già sappiamo. Hannah Strong per Little White Lies afferma infatti che “replicating images doesn’t automatically make them subversive, and The Substance’s execution of its supposed themes is as shallow as the very thing it’s critiquing, a stab at feminism without actually saying anything other than ‘women are held to excruciating beauty standards’”. 


Sempre parlando di horror, all’uscita di The Substance io preferisco attendere invece quella di The Shrouds di David Cronenberg. Il film parla di un imprenditore, Karsh (Vincent Cassel), che, devastato dopo la morte della moglie, decide di inventare una tecnologia che permette di osservare il decadimento dei propri cari morti in tempo reale, appunto chiamata “shroud”. Il film è una meditazione fortemente personale non solo sul lutto, data la recente morte di Carolyn Cronenberg, moglie del regista, ma anche sulla relazione tra cinema e morte. Nelle parole di Cronenberg: "I’m often watching movies in order to see dead people. I want to see them again, I want to hear them. And so cinema is in a way a kind of shrouded post-death machine, you know. In a way, cinema is a cemetery."



Un altro ritorno da me attesissimo è quello di Andrea Arnold, regista britannica conosciuta soprattutto per Fish Tank e American Honey: il suo ultimo lungometraggio, Bird, segue le avventure della dodicenne Bailey (Nykiya Adams) e vanta nel cast anche due degli attori più popolari degli ultimi anni, ovvero Franz Rogowski (Disco Boy, Passages) e Barry Keogan: riguardo al secondo, Iana Murray per GQ riflette su come questa interpretazione lo allontani in definitiva dal typecasting come “weirdo” (come visto in The Killing of the Sacred Deer o Saltburn): “Everything is dialled back, as Keoghan is superbly attuned to Arnold’s naturalistic style, and in turn, Arnold brings out the best of his softness and charisma, the kind that’s absent from his previous turns.”



La redazione di Otto Film e Mezzo è invece pronta a scontrarsi con la nuova fatica di Yorgos Lanthimos, Kinds of Kindness, dal cast ricchissimo – tra gli altri Emma Stone (ovviamente), Jesse Plemons (vincitore del premio Miglior Attore), Margaret Qualley e Willem Dafoe. Il film segna il ritorno dello storico collaboratore del regista e sceneggiatore Efthymis Filippou, sostituito da Tony McNamara nei due lungometraggi precedenti. Oltre al cast, ciò che mi attrae profondamente di questo film è il suo essere composto da più episodi (abitudine che purtroppo di recente si è persa) interpretati dallo stesso gruppo di attori. 



Arrivando invece ai grandi vincitori di quest’anno, abbiamo il Grand Prix de la Giurie assegnato a All We Imagine As Light di Payal Kapadia, primo film indiano in concorso al festival da oltre trent’anni. Tra gli ultimi titoli ad essere proiettati, è stato uno dei pochi a ricevere un plauso quasi universale insieme ad Anora, di Sean Baker, che si è invece aggiudicato la Palme. Sean Baker è un regista americano, diventato più popolare negli ultimi anni soprattutto grazie al successo del suo The Florida Project, i cui film sono slice of life sui reietti degli Stati Uniti: nel suo discorso Baker ha infatti ringraziato tutte le sex worker, da sempre protagoniste indiscusse del suo cinema. A ottenere il premio alla regia è stato invece Miguel Gomes per Grand Tour, regista portoghese amatissimo dalla critica, autore di Tabu e della titanica opera Arabian Nights.


Nella sezione Un Certain Regard (purtroppo passata in secondo piano sul mio Twitter) segnalerei in particolare i due vincitori ex aequo per la miglior regia, ovvero Roberto Minervini - per me l’unico italiano a Cannes quest’anno di cui valga la pena parlare - con I Dannati (al cinema in questi giorni) e Rungano Nyoni con On Becoming a Guinea Fowl, secondo film della regista dopo il successo critico I Am Not a Witch.


Tra Fuori Concorso e Cannes Premiere abbiamo l’anteprima di Furiosa di George Miller, anche questo al cinema e già oggetto di aspri dibattiti all’interno della redazione, ma anche uno spiritoso film di apertura di Quentin Dupieux, Le deuxième acte (che andrò comunque a vedere a prescindere dal fatto che sia stato cassato dalla critica) e, per finire, Ce n’est pas moi, un meta-mediometraggio di Leos Carax sulla propria carriera - alla cui prima, parlando di grandi ritorni, ha presenziato addirittura Baby Annette.


 Di Emma Marinoni


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